L’ Acino Vini di Dino Briglio Nigro
Ditemi, a parte il Cirò, il nome di un vino calabrese. Scommetto che non ve ne sovviene neanche uno. Ed io mi chiedo come sia possibile, come sia avvenuta la perdita così radicale della cultura del vino di questo territorio. La viticoltura in Calabria ha origini antichissime. Le civiltà che hanno preceduto le colonizzazioni greche erano già dedite ad una viticoltura rudimentale, così, quando sulle coste della Calabria approdarono i Greci (744 a.C.), promotori di una viticoltura più evoluta, riconobbero nella Calabria un territorio fertile, adatto alla produzione vitivinicola. Fu così che gli stessi Greci chiamarono Enotria (Oinotròi) questa terra, nome che a prescindere dalle possibili diverse interpretazioni, ha comunque un legame innegabile con la parola oinos, vino. Ed è proprio in questa zona geo agraria, dove i greci producevano il vino per le olimpiadi, che troviamo Dino Briglio Nigro. Per noi un fratello, un amico, un compagno vero. Con lui abbiamo condiviso e continuiamo a condividere bottiglie e battaglie: lui ci conosce e noi conosciamo lui. E ci piace davvero tanto. Ci piace la sua forza di recuperare i vecchi vitigni della sua terra. Ci piace come lavora in vigna ed in cantina. Ci piace che venda direttamente il suo vino senza intermediari. Ci piace che gli piacciano i rapporti umani e che voglia conoscere le persone a cui vende i suoi vini. Ci piacciono tutti i suoi vini. E se un giorno gli chiederete cos’è per lui un vino buono, lui vi risponderà, come ha fatto di recente in un'intervista a Puntarella Rossa e come già da tempo ci aveva confidato: “Un vino è buono quando finisci la bottiglia in un attimo, quando in due la bottiglia da 0,75 è troppo poco. Sto aumentando la produzione di vino in magnum, perché penso che una magnum sia per due ma anche per quello che resta. Ti spiego: quando resta qualche bicchiere sul fondo della bottiglia si beve il giorno dopo e nel caso di un vino vero il giorno dopo (ma anche dopo quattro o cinque giorni) sarà diverso, anche più buono. Questo perché avremo avuto l’opportunità di sperimentare il suo sapore durante un arco più lungo di tempo. Da quando nasce nel bicchiere alla normale degradazione che avviene col contatto dell’ossigeno nel tempo. Ci darà tante sensazioni diverse e questa è più o meno la differenza che c'è tra una storia di una notte e una storia d’amore”. L'acino le su vinge le ha tra le colline prospicienti il Mar Jonio, nella splendida cornice della Piana di Sibari, e San Mrco Argentano fronte tirreno, siamo nella provincia di Cosenza. Dino, come pochi altri produttori della zona, valorizza, vinificandole in purezza, le uve di magliocco canino, antico vitigno calabrese le cui origini si perdono nella notte dei tempi ma che, in tempi recenti, stava scomparendo. Il vitigno, robusto e facilmente adattabile all’ambiente, è allevato in pieno Parco Nazionale del Pollino, a un’altitudine di circa 600 metri sul livello del mare, con un’esposizione a Sud-Ovest in un terreno composto da sabbia, limo e argilla. L'uva viene raccolta intorno alla metà di ottobre, a piena maturazione. La fermentazione alcolica è spontanea e Dino non fa nessuna filtrazione o chiarifica del liquido. Il vino affina un anno in botti di rovere da 500 litri e poi tre anni in bottiglia. Nasce così il ToccoMagliocco. Di un rosso rubino intenso, al naso i profumi sono di frutta a bacca rossa matura, con note di spezie. Al palato è caldo e avvolgente, minerale, fresco e dinamico, con una lunga persistenza. E’ un vino che affascina che ti conquista con le sue note armoniche lunghissime e mai stucchevoli. Questa domenica ne abbiamo bevuto 4 annate differenti, la 2016 la 2015 la 2013 e la 2010, che dire 4 annate 4 vini differenti, 4 esperienze uniche, personalmente tra le 4 io sono stato sedotto da 2 annate, la 2016 che ha una potenzialità enorme, e poi la 2010 che mi ha lasciato letteralmente senza parole, che gran vino, che evoluzione, bottiglie del genere non devono mancare nella propria cantina. BONAVITA - VIGNAIOLI IN FARO SUPERIORE
Giovanni e Sanny sono una coppia nella vita, ma il loro legame appare da subito ben più profondo. Sono uniti dalla terra, dalla passione, e da tutti i progetti che girano intorno alle radici, ben salde, di una famiglia che ha deciso di dedicare la propria vita al vino. Ci troviamo a Messina, la mia città, la mia terra. La guardo con gli occhi di chi l'ha lasciata alla ricerca di opportunità non legate a conoscenze e clientelismo, e mi riempie il cuore la possibilità di conoscere chi, al contrario, in quella stessa terra è tornato per creare qualcosa che dalle conoscenze e dal clientelismo fosse totalmente slegato. Siamo a Faro Superiore, zona vocata alla Doc Faro. Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio, Nocera. Per arrivare al vigneto terrazzato, che guarda lo Stromboli alla stregua di un amante innamorato che si nutre anche solo di sguardi, la strada è stretta, scoscesa e impervia, come quella percorsa da Giovanni e Sanny per raggiungere i propri obiettivi e realizzare i propri progetti. E quando la strada è difficile e impervia, si sa, raggiungere un obiettivo dona molta più soddisfazione. Sanny ci racconta le viti, i grappoli, il microclima. Ci parla delle vigne più giovani come fossero figlie, e delle più vecchie come fossero anziane da cui trarre immensi doni di saggezza e conoscenza. Ci parla del senso ancestrale di maternità legato alla loro creazione e cura, e del lavoro, costante e silenzioso, che negli anni ha portato ai risultati che assaggeremo in cantina. E proprio in cantina troviamo un altro tassello di questa instancabile, continua, ostinata progettualità. Una deliziosa e accogliente zona soppalcata totalmente auto costruita. Una cucina salone in cui si respira la cura, l'amore, il senso di ospitalità. Mi scappa una lacrima di commozione, di quelle lacrime che solo lo stupore per tanta bellezza mi sa dare. Solo ora assaggiamo i vini, come è giusto che sia. Perchè, come dico sempre, aprire una bottiglia di vino è un punto di arrivo, non un punto di partenza. In un clima sereno di scambio e di confronto, in cui Giovanni e Sanny ci raccontano altri progetti e altri sogni come Halarà, assaggiamo il rosato che, concordiamo sorridendo, proprio rosato non è, e il Faro 2017, capolavoro di questo territorio. Dentro il calice troviamo la dedizione, la fatica e il sudore. Con il naso ci immergiamo nella terra calcarea e argillosa, nella salinità dello stretto, nell'aromaticità del finocchietto e della macchia mediterranea. In bocca un'annata calda e siccitosa. Morbidezza, sapidità e una persistenza pari alla tenacia di questa coppia che mi ha saputo donare emozioni che vanno ben oltre il vino che producono. NO LOGHI
Enoize si batte ormai da anni contro tutte quelle certificazioni e disciplinari che, di fatto, non tutelano nè la terra su cui viene creato il prodotto finale, nè tantomeno i lavoratori del settore: parlare di prodotti genuini prescindendo da questi due elementi ha per noi poco senso. Sappiamo di andare controcorrente, in un momento storico in cui i vini cosiddetti “naturali” hanno guadagnato una buona fetta di mercato, ma durante i nostri corsi non diamo risalto alle parole “biologico”, “biodinamico”e “naturale”, né tantomeno amiamo parlare, se non in termini critici, di doc, docg, igp, dop. LE NUOVE MODE DIALETTICHE: I LIEVITI INDIGENI Nel mondo del vino naturale, dopo la questione solfiti, è arrivato un nuovo grande must: i lieviti indigeni. I puristi vino-naturalisti, e i terroiristi in genere, li preferiscono all’odiato “lievito selezionato”, offerto dalle industrie enologiche in pratiche buste da chilo. Per chi non lo sapesse, il lievito indigeno è rappresentato da delle strane bestioline capaci, tra le altre cose, di trasformare gli zuccheri in alcol e, di conseguenza, il mosto in vino. Purtroppo la noiosa discussione tra più o meno esperti del settore su lieviti indigeni/selvaggi/ selezionati, si trasforma sempre in discussioni tra opposte fazioni dove l'opinione di uno tende a voler predominare sull'opinione di un altro, impedendo un vero dibattito sul tema. In realtà, la scelta tra fermentazione spontanea, cioè senza aggiunta di lieviti arrivati “da fuori”, e utilizzo di fermenti selezionati, non rappresenta un’alternativa secca, ma due punti lungo i quali esistono numerose “sfumature di grigio”. Parlando di fermentazioni, a noi piace suddividerle affettuosamente nei seguenti tipi: Fermentazione “a culo”: si butta l’uva in una vasca, non si aggiungono lieviti e nemmeno solfiti, tanto meno altri prodotti enologici, non si controlla la temperatura. Si possono produrre vini memorabili, più spesso imbevibili. La causa sono le deviazioni microbiologiche, cioè l’azione di microrganismi diversi dai lieviti vinari “buoni”, prevalentemente batteri. Per altri alimenti si usa il termine “andare a male”, ma in enologia pare brutto. Fermentazione dei Dotti: si parte dal “pied de cuvè” , cioè una piccola massa in fermentazione non aggiunta di lieviti (e aggiunta, o meno, di solfiti), nella quale sia possibile fare alcune verifiche prima dell’inoculo, necessarie soprattutto in assenza di solfiti. Da qui poi si controlla che la fermentazione sia regolare, la produzione o meno di composti indesiderati, si assaggia sempre, fino a spingersi talora all’analisi microbiologica delle specie e dei ceppi che stanno operando, con metodi più o meno avanzati, dal microscopio all’analisi del DNA. Chi è proprio figo prepara più piedi per scegliere il migliore. Questa tecnica, che richiede un altissimo livello di igiene e solide conoscenze tecniche, consente in genere di condurre una fermentazione senza solfiti (eventualmente aggiunti in seguito) minimizzando il rischio di deviazioni. Fermentazione alla vecchia: viene tuttora impiegata in alcune cantine che producono vini a basso prezzo, in cui non si fa nessun inoculo, o si inoculano solo i primi fermentatori, e ci si assicura contro le deviazioni microbiologiche con l’apporto di ingenti iniezioni di anidride solforosa alla quale i lieviti vinari del genere Saccharomyces sono piuttosto resistenti, al contrario dei batteri e di altri lieviti. Fermentazione VIP: si inoculano lieviti selezionati indigeni, che vengono isolati durante la fermentazione spontanea, testati per verificarne i caratteri enologici, e successivamente riprodotti il tutto in laboratorio. Il metodo sposa l’idea del lievito indigeno, minimizzando però i rischi delle fermentazioni spontanee. Fermentazione dell’enologo: si inoculano lieviti selezionati, a volte creando un mix tra specie diverse. Si ottiene così una maggiore complessità dei vini che si bevono, probabilmente dovuta alla maggiore biodiversità. MA DOVE SI TROVANO I LIEVITI? I produttori e le produttrici di vino ci raccontano la vendemmia, descrivendo la raccolta manuale delle uve e la scelta dei grappoli sani per avere qualità e pulizia, in cantina prima e nel vino poi. Da questo dovremmo dedurre che per avere fermentazioni spontanee con i lieviti indigeni è necessario avere uve molto sane. In realtà, però, la presenza dei lieviti del genere Saccharomyces è molto ridotta sulle uve sane, mentre è molto maggiore su uve ferite o rosicate dalle vespe, insetti che hanno un ruolo importante nella dispersione dei lieviti nell’ambiente. Nel caso della fermentazione spontanea, dunque, a lavorare sono i lieviti che popolano la cantina, poiché i lieviti vinari non sono in grado di colonizzare, e quindi di fermentare gli zuccheri, in un frutto integro. I lieviti vinari hanno bisogno di luoghi favorevoli alla loro coltura e l’uomo, fin dalla notte dei tempi, ha giocato un ruolo chiave nella loro riproduzione e selezione, ad esempio con la preparazione degli alimenti fermentati: vino, birra, pane etc. Anche l’interscambio continuo tra la cantina e l’ambiente esterno (il vigneto) mediato per lo più da insetti, e le mutazioni spontanee, hanno certamente determinato una differenziazione dei lieviti nelle zone viticole del mondo ed anche da cantina a cantina. GLI AROMI DEL VINO Ma si possono effettivamente distinguere i vini ottenuti da fermentazioni spontanee con lieviti selvaggi o indigeni da quelli ottenuti attraverso i lieviti selezionati? Se nei vini invecchiati è quasi impossibile, nei vini giovani gli aromi intensi di agrumi e frutti tropicali possono far pensare ai lieviti selezionati, seppur non ne avremo mai la certezza, perchè la presenza di determinati aromi dipende strettamente dall'interazione tra il lievito e il mosto. Per esempio l’acetato di isoamile, familiarmente chiamato bananone dagli enologi, prodotto in abbondanza da certi lieviti, si trova frequentemente nello Chardonnay ma molto meno in altri vini. “Un lievito produce aromi fermentativi e libera, attraverso enzimi specifici e in parte diversi da ceppo a ceppo, precursori aromatici che sono legati a una molecola di zucchero, un po’ come se tagliassero il filo a un palloncino legato a un sasso facendolo volare.” Poichè il lievito non può tirar fuori da un mosto quello che non c’è, è facile intuire che i lieviti non sono degli “aromatizzatori”. Inoltre, una componente olfattiva che deriva da un certo vitigno, o da un certo “terroir”, potrebbe restare del tutto silente con una fermentazione spontanea, perché i lieviti indigeni non hanno l’enzima che la evidenzierebbe. Allora qual'è il vino più rappresentativo di un terroir? La risposta, in realtà, è abbastanza complessa, come complessa è la Natura, che ci ricorda che l’obiettivo biologico della pianta della vite non è fare del buon vino, ma sopravvivere; che l’obiettivo del lievito è riprodursi, non fare il vino che piace a noi con i sentori che vogliamo noi. Pensare che un vino sia tout court migliore perché fatto con un qualunque lievito “del luogo” è un pensiero certamente legittimo, ma molto “antropocentrico”, quasi che la natura fosse al servizio dell’uomo. Per fortuna non lo é. Per tutti questi motivi non ci piacciono i loghi, i dettami, le leggi che ci dicono cosa sia più o meno buono. A questi standard preferiamo la conoscenza diretta, che permette di sviluppare un rapporto di fiducia tra chi consuma e chi produce, rompendo di fatto tutti quei rapporti creati su un modello economico capitalista. Per concludere, i lieviti selezionati, indigeni o meno, semplificano la vita a chi fa il vino, mentre i lieviti selvaggi la complicano. Alzando il livello della sfida consentono però, talvolta, di ottenere vini migliori, più complessi e più originali. Per vincere questa sfida il coraggio serve, ma non basta. Serve conoscere e imparare dai propri errori, rimanere umili e...una dose di culo non fa mai male! ![]() Château Pascaud-Villefranche È di poche parole Fabien, ed arriva immediatamente al cuore. L’impressione di trovarci di fronte ad una persona mite e gentile è la prima cosa che ci ha colpito. Van, Enotica, la Terra Trema: ogni volta, noi tante domande, tante curiosità, lui un tesoro di conoscenze e abilità artigianali. Il lavoro su vecchie vigne di Sauvignon Blanc, Semillon e (poche) di Muscadelle, il delizioso risultato centenario di ben quattro generazioni e infine, nel 1995, la decisione di abolire i fertilizzanti e i pesticidi. Sei ettari coltivati da Fabien, che ne è l’agronomo e l’enologo, aiutato dal fratello Thomas e dall’attento sguardo dell’anziano padre. Qualche aiuto durante il lungo periodo della vendemmia per una produzione totale di circa 7.000 bottiglie. Questi i numeri aziendali. Parliamo di Fabien e del suo Sautèrnes, un Balzac, vinificato da uve Sèmillon, Sauvignon Blanc e Muscadelle in proporzioni variabili, in una zona unica per questo tipo di vino. Ci troviamo nel distretto delle Graves, alla sinistra del fiume Le Ciron, il vero artefice di questo vino. La vendemmia tardiva ad ottobre inoltrato e Le Ciron, quel corso d’acqua che divide il Comune di Barsac dal Comune di Preignac, crea condizioni mesoclimatiche molto particolari. Al mattino i vigneti sono invasi da nebbie molto basse che nel primo pomeriggio svaniscono. Il sole, nel suo asciugare, favorisce la Botrytis Cinerea, che perfora gli acini di Sauvignon Blanc, Semillon e Muscadelle facendo evaporare il 50% dell’acqua, concentrando il succo e aumentando il residuo zuccherino. L’irregolarità e l’imprevedibilità dello sviluppo di questa muffa rendono necessari diversi passaggi di raccolto e consentono una produzione scarsa e rischiosa. La vendemmia può durare anche quattro settimane, e gli acini raccolti uno ad uno. Sono necessarie complicate tecniche di vinificazione e una buona proporzione di legno nuovo, molto costoso per la maturazione, per l’invecchiamento di questo delicato vino dolce. E come dice Fabien, da questi brutti chicchi ammuffiti si ricava un nettare divino. Chateau Pascaud-Villefranche 2015: Sautèrnes giovane dal colore oro tenue, brillante, con evidenti profumi di frutta candita e miele, dotato di forte acidità, per un vino che sorregge l’equilibrio del residuo zuccherino e che promette una longevità spaziale. Chateau Pascaud-Villefranche 2011: oro con sfumature ambrate, viscoso, ha un bouquet che solitamente caratterizza i vini prodotti da vitigni aromatici. Buona acidità e mineralità, la glicerina e il residuo zuccherino donano una dolcezza piacevole e non invadente. Chateau Pascaud-Villefranche 2009: albicocca candita, buccia d’arancia, zafferano, miele, per un colore decisamente ambrato. Palato piacevole, sorso, dopo sorso, dopo sorso, dopo sorso, dopo sorso, portaci la botte Fabien! ![]() Azienda Agricole I Botri di Ghiaccioforte Oggi vi parliamo di un'Azienda Agricole I Botri di Ghiaccioforte di Ghiaccio Forte, che si trova in Maremmana nella zona di Scansano, chi di voi non ha mai bevuto in vita sua un morellino di scansano? Immaginiamo molti pochi di voi, ma immaginamo anche, che in un mondo regolamentato da leggi e leggine, che in teoria servono per difendere la bonta' di un territorio, ma che in realtà ne limitano l'espressione, pochi di voi abbiano avuto il piacere di bere del vino prodotto in questo territorio che sia vera espressione di un terroir unico. Partiamo dal Rosso Vigna i Botri un IGT che non puo' avvalersi della DOCG perchè la commssione dice che non segue i parametri che un morellino di scansano deve avere per prendere la docg, ecco possiamo affermare con fierezza meno male! Meno male ci sono ancora aziende come I Botri di Ghiaccio Forte, che difendono la storia i spaori gli odori di un pezzetto di territorio, e lo fanno a loro rischio, per passione. Semplicemente vi vogliamo dire, se cercate un morellino di scansano bevete il loro Rosso lo e',Morellino, oltre ogni tipo di certificazione! Parlando di morellino e quindi di sangiovese vi vogliamo dare qualche nozione storico-colturale per farvi capire la storia di questa zona di produzione. Ghiaccio Forte si trova nella Valle dell’Albegna(area etrusco-meridionale) che è stato il contesto più importante per la produzione del vino, in eta' pre Romana. Tra il VII ed il VI secolo a.C., in coincidenza con l’avvio della produzione su larga scala del vino etrusco, il distretto entra nel sistema di traffici organizzato da Vulci e documentato a livello archeologico dalla nascita dei primi tipi di anfore etrusche da trasporto. Per questo motivo e' stato avviato recentemente uno studio diretto a osservare i fenotipi e i genotipi della Vitis vinifera ssp. sylvestris in prossimità di Ghiaccio Forte e di altri siti produttivi del periodo etrusco e romano, partendo dal postulato che le popolazioni di vite oggi diffuse in Maremma potessero avere affinità con le piante coltivate in età antica e che si fossero rinaturalizzate (quindi rinselvatichite) con il tempo, entrando a far parte della vegetazione spontanea dell’area. L’idea è che il settore in esame abbia funto da incubatore almeno dei vitigni Sangiovese e Ciliegiolo: è opinione ormai accreditata che il luogo di origine di tali varietà sia da localizzare tra la costa orientale della Sicilia e le coste ionica e tirrenica della Calabria, per la sensibile affinità genetica con diversi vitigni prodotti in loco dalla viticoltura greca. Nello stesso tempo, alla diversificazione genetica di questo vitigno, hanno partecipato anche vitigni di area tirrenica come il Mammolo e la Garganega; secondo il Prof. Scienza, infatti, le parentele di primo grado con la Foglia Tonda, i Morellini del Casentino e del Valdarno e il Brunellone confermano l’ipotesi che il suddetto vitigno abbia avuto precocemente un importante areale di coltivazione in Toscana e in Corsica. Anche se questa trasmissione, come ipotizzato dal Prof. Scienza, sarebbe avvenuta all'nizio dell’età moderna, il viaggio del Sangiovese (e probabilmente del Ciliegiolo) potrebbe essere senza difficoltà riferito a età antica. Detto questo dobbiamo ringraziare questa azienda anche per coltivare ancora il prugnolo gentile ed il procanico vitigni antichissimi della zona, per lo piu' soppiantati dai piu' redditizzi vitigni francesi. E grazie anche per chiamare il trebbiano toscano con il nome conosciuto in tutta la maremma e cio'e' Procanico, i nomi sono importanti e la memoria è un ingranaggio collettivo, in cui tutti dovremmo esercitarci. Questi i loro vini, cercateli richiedeteli e beveteli: Vigna i Botri (ROSSO) Morellino sangiovese(90%) ed il Prugnolo Gentile (10%), l’Alicante, ed il Ciliegiolo. A differenza di tutti gli altri morellini lui e' di color Rubino luminoso. Al naso apre con note eteree, dolci, poi la frutta rossa, ciliegia in primis, ma anche lamponi, il pepe. Entra in bocca discreto, senza invadere, denota un gran bell’ equilibrio tra struttura e acidità, alcool potente e perfettamente integrato. Il sorso è appagante, tanto che appena mandato giu' sentirete la necessità di riavvicinerete le labbra al bicchiere. Finisce lungo. Pronto da bere, adatto a lungo invecchiamento, chi ha la coscenza puo' comprarne 12 bottiglie e berne una ogni 6 mesi per seguirne l'evoluzione, noi purtroppo non abbiamo questa capacità di attendere. Ghiaccioforte (BIANCO) Procanico (Trebbiano Toscano) 60%, Malvasia, Vermentino e l’Ansonica. Un vino bianco pazzesco, dove regna il morellino, loro hanno tirato fuori il classico coniglio dal cappello, dal colore giallo dorato intenso ha la consistenza e l’intensità aromatica tipica dei vini rossi. Al naso si viene sommersi da intensi aromi di cedro, passiflora e fiori di tiglio. Al palato è consistente e concentrato, e risalta il cedro più agre. Di lunga persistenza. Vinificato in bianco, a temperatura controllata, è messo in bottiglia dopo una breve maturazione di alcuni mesi in cantina. I Botri di Ghiaccio Forte - Via Case Sparse I Botri, 212 - Fraz, 58054 Scansano GR email: ibotri212@gmail.com 00 DIARIO DI UN FLUSSO DI COSCIENZA SENZA FILTRI SENZA TRUCCO COME IL VINO CHE BEVIAMOQuesta non è l’ennesima rubrica sul vino, non è un blog, e soprattutto non è una classifica dei vini.
Semplicemente, è la voglia di socializzare per coltivare vecchi e nuovi rapporti personali che nascono o sono nati attraverso la nostra esperienza da bevitori di vini. Vuole essere un viaggio interpersonale, che parte dalla regione in cui viviamo, il Lazio, andando alla ricerca di chi valorizza con amore e passione il proprio territorio. Un viaggio ed una ricerca in ciò che resta della cultura contadina e del rito della condivisione del cibo, e che il fine di ogni ricerca non sia tanto trovare l’oggetto cercato quanto perdersi ulteriormente. Quali sono le metodologie che useremo per parlarvi di un vino o di un territorio? Su quali caratteristiche fondamentali si andrà a formare il nostro metro di “giudizio”? ma quale giudizio? Qualcosa che nasce da un sentimento può essere giudicato? I nostri sentimenti nascono dal profondo di un bicchiere ed hanno radici nell’animo di chi fa il contadino, quella figura ormai obsoleta che del lavoro della terra ne fa’ coltura per poi divenire cultura. I due termini coltura e cultura si sono spesso confusi, e fino a tutto l’Ottocento ciascuno dei due è stato usato nei due significati, in quello proprio di coltivazione, e in quello traslato di istruzione. L’origine, si capisce, è una sola: il latino cultura, derivato da cultus, participio passato di còlere, cioè coltivare; anche Cicerone diceva cultura vitis e cultura animi. Solo con l'avvento della rivoluzione industriale abbiamo dato una netta distinzione a questi due termini, e noi crediamo sia questo uno dei segni del nostro declino. Insomma per noi, “semplicemente”, la qualità di un vino è il risultato di una complessa interazione tra le condizioni climatiche, le caratteristiche pedologiche ed il comportamento del vitigno. Da queste basi il contadino che conosce bene il suo ambiente attua opportune scelte di tecnica colturale che consente al vitigno di esprimere le proprie caratteristiche genetiche in modo ottimale nell’ambiente di coltivazione. Detto questo per noi tutte le certificazioni esistenti hanno lo stesso valore dei marchi commerciali. Non è un marchio a certificare la tradizione, casomai serve a standardizzare un prodotto per le grandi catene commerciali. Noi vogliamo sapere dove nasce un prodotto e ci fidiamo dell’autocertificazione del produttore che mi spiega come è fatto il suo vino od il suo olio facendo capire il suo amore per la Terra. 13 Atti della Sensibilità Planetariaprogetto t/Terra e libertà/critical wine 1. RIATTIVARE LA RELAZIONE TRA SAPERI E SAPORI Il primo atto di sensibilità planetaria/ribelle è interrogare il rapporto tra saperi e sapori della vita. Un rapporto che rischia, come tante altre cose della nostra esistenza, di scivolare nel laboratorio di marketing dell’industria agroalimentare contemporanea la quale cerca di surrogare la distruzione metodica, progressiva, scientifica dei sapori della vita presentando i suoi prodotti incommestibili innaffiati col pepe rancido di saperi totalmente inventati o reinventati. Così in tutte le rubriche di moda sui giornali o alla tv i saperi e i sapori sono nel titolo. Più che un legame, l’insistenza su saperi e sapori della propaganda dell’industria agroalimentare contemporanea, denuncia una discrasia, un antagonismo profondo, il definitivo compiersi di un divorzio sospettato da tempo tra produzione e cultura. Segnala il definitivo dominio della produzione industriale di massa non solo sui produttori ma anche sui saperi. I saperi di cui cianciano i rotocalchi di tutto il mondo non hanno alcun legame coi sapori. Sono semplicemente saperi addomesticati per sapori insensati, falsi, ingabbiati nella produzione seriale. Ciò che al sapore risulterebbe offesa viene addomesticato con saperi consolatori e carezzevoli intorno al buon tempo antico. Siamo così costretti a digerire un insulso sapere come surrogato del sapore. Man mano che si distruggono i sapori ci abituiamo a consolarci con il sapere fino a quando avvertiamo la percezione, terribile e tremenda, che quel sapere che aveva surrogato, tollerato, argomentato la distruzione dei sapori, conduceva alla medesima insensatezza del sapere, della conoscenza, della scienza. Il sapere della vita viene surrogato dal sapere sulla vita. Non muta in questa presa d’atto soltanto la preposizione articolata. Il sapere sulla vita denuncia una conoscenza esterna, un’erudizione aliena, una sferadi dominio in cui la vita da soggetto d’esperienza diventa oggetto di controllo, corpo della medicalizzazione, cavia da vivisezione. È vero che si vive di più, ma forse si muore ogni giorno. Il macchinismo contemporaneo ci offre l’illusione di vivere molto con la certezza di non essere mai nati. D’altronde, che senso ha una vita insensata se non quello di trascinarsi alla vecchiaia già decrepiti prima di nascere? t/Terra e libertà/Critical wine (t/Tl/cw) vuole costruire una difesa pratica della vita materiale, contro le nocività politiche, culturali, sociali che svalutano l'esperienza sensoriale, le capacità dialettiche del linguaggio, la coscienza del vissuto individuale e dei processi storici collettivi. Costruire in maniera cooperativa forme e strumenti di comunanza, condurre al riconoscimento della cosa comune, dall’aria all’acqua al cibo fino alla produzione informatizzata e alle reti. Il carattere connettivo del progetto t/Tl/cw si manifesta nella sperimentazione e nella pratica ricombinante dei punti dove si intersecano lavoro, agricoltura, ambiente, alimentazione, nuove tecnologie, creatività. 2. PER LA RIAPPROPRIAZIONE SENSORIALE E RAZIOCINANTE Il secondo atto della sensibilità planetaria è stato quello di concepire l’insensatezza della realtà, non pi come deficit di raziocinio di menti peregrine ma come deprivazione sensoriale, come difficoltà o impossibilità di esperire nella socialità planetaria la nostra sfera sensitiva. Sensibilità planetaria è dunque atto di resistenza contro la distruzione dei sapori, contro l’annichilimento dei saperi ma anche contro la deprivazione sensoriale che ci porta all’ottundimento della nostra facoltà di udire, di vedere, di tastare, di gustare e di annusare. Tra i non sense dell’umanità contemporanea non vi è soltanto la produzione di un esercito infinito di miopi della vista. La miopia dell’udito, la miopia del palato, la miopia dell’olfatto, la miopia del tatto sono tanto e forse ancor pi preoccupanti della miopia della vista. La vita insensata non afferisce solo alla perdita di senso del nostro agire ma anche all’affievolirsi della capacità sensitiva. Il senso dell’agire non può non avere relazione con i sensi tramite i quali si agisce. Si smarrisce il senso perché si perdono i sensi. La deprivazione sensoriale è aspetto cruciale e paradigmatico della perdita di senso dell’agire. La sensibilità planetaria è dunque riaffermazione della centralità sensoriale e nel contempo ricentralizzazione del senso dell’agire. 3. PER NUOVE RELAZIONI SOCIALI (ovvero rapporti di produzione) Il terzo atto della sensibilità planetaria/ribelle è quello di concepire che l’insensatezza planetaria deriva dai rapporti di produzione, ovvero dalle modalità con le quali gli uomini producono e si relazionano tra di loro. È allora il caso di domandarsi: che tipo di sensorialità sviluppano o inibiscono i rapporti di produzione? In che modo e perché le relazioni sociali sono insensate, ovvero si producono nell’inibizione della sfera sensoriale o nell’indifferenza verso di essa? Questo atto ci pone corpo a corpo, senza alcuna possibilità di mediazione, in unabattaglia che diventerà cruciale nei prossimi decenni. Non diventerà cruciale per un pugno di vincitori cui toccherà dividersi il bottino della guerra. Sarà cruciale per le sorti del pianeta e per la possibilità che continui a esistere una sensibilità planetaria. Occorre avere coscienza che siamo ai limiti dell’irreversibilità dell’insensatezza globale. Negli ultimi due secoli siamo stati abituati a ragionare sul rapporto tra macchinismo industriale e ambiente. La soglia d’indifferenza verso l’impatto ambientale del macchinismo è stata superata da tempo. Le prossime generazioni si troveranno costrette a produrre prevalentemente per riparare i danni delle produzioni precedenti. Nei cantieri del macchinismo futuro occorrerà tamponare le ferite dei periodi precedenti. Tutto ciò ha il valore dell’evidenza. Non fosse così fra qualche secolo, non molti, non si potrà neanche pi discutere perché sarà impossibile respirare. Ciò che è altrettanto evidente, ma che è privo di forza dell’evidenza, non è cioè ancora un luogo comune, è che le modalità del produrre, archiviata l’indifferenza all’ambiente, insistono a riprodurre in crescendo una completa indifferenza al rapporto tra materie prime e produzione e ancor di pi na totale indifferenza alle relazioni sociali. Il modello prevalente del macchinismo contemporaneo tende a riprodurre l’utopia della produzione di tutto e di tutti in laboratorio. La realtà verso cui tende il macchinismo industriale è produrre praticamente tutto tendenzialmente senza niente. Siamo abituati a pensare che la scienza sia al servizio della produzione, ma occorre riflettere sul rapporto contrario, ovvero sull’appiattimento della produzione industriale alle utopie macchiniche. Il macchinismo ha dimostrato che si può produrre tutto praticamente senza niente. Ma quel tutto che si produce è l'altra faccia del niente. l’altra faccia del niente. Ciò che si produce ci appare come prodotto semplicemente perchè è oggetto di vendita, ma al di fuori della sua capacità di commercializzazione il niente che si produce ha poco a che fare con il prodotto che si dice di produrre. Si possono produrre banane nell’Antartide, ma sono banane? Si può produrre vino senza uva, ma è vino? Si può produrre olio d’oliva senza olive, ma è olio? Il macchinismo produce moneta falsa e intende convincerci che è denaro. Il sapere di laboratorio non riproduce la vita (di una pianta, di un frutto, di una qualsiasi forma della vita), ma la sua rappresentazione nel commercio mondiale. I prodotti industriali agroalimentari sono nient’altro che il simulacro macchinico della vita, l’effetto della distruzione delle relazioni sociali in agricoltura e il surrogato sintetico dello scambio uomo-natura. Il processo di industrializzazione dell’agricoltura ormai concluso. Non solo questo il problema. Non intendiamo certo aderire alle stoltezze di chi intende rinverdire il mito di un’agricoltura contadina priva di macchine e piena di sudore. Chi ha nostalgia per la schiavitù in agricoltura non ha la sensibilitàplanetaria di t/Tl/cw. Non abbiamo nulla contro l’uso delle macchine in agricoltura o altrove. Ciò che chiamiamo macchinismo non è il semplice uso delle macchine. Il macchinismo contro cui ci battiamo il divenire macchina della vita. In agricoltura l’uso delle macchine ha consentito una straordinaria limitazione della fatica e un potenziamento eccezionale delle capacità produttive. Ciò che combattiamocon tutte le nostre forze è la riduzione della vita a macchina, la sostituzione di ogni elemento della vita con un prodotto di sintesi da laboratorio. Con la pretesa che questo processo sostitutivo aumenti le capacità produttive a dismisura, la terra di tutto il mondo è stata avvelenata dall’uso dissennato di fertilizzanti e di altri prodotti della chimica industriale. La terra appare oggi come un bambino che, nel tentativo di farlo crescere forte e sano, viene tenuto al riparo dal contatto con altri simili e viene alimentato solo da antibiotici e da cibi di sintesi prodotti da una delle poche buone mamme multinazionali. Lo stesso uso delle macchine sempre più spesso anzichè agevolare il lavoro diventa un semplice modo di espropriazione delle conoscenze, di riduzione, inaridimento e smantellamento delle relazioni sociali, di dipendenza dalla catena commerciale e finanziaria. 4. DEINDUSTRIALIZZARE L'AGRICOLTURA La deindustrializzazione dell’agricoltura che pretendiamo non è l’eliminazione delle macchine nei processi produttivi. Deindustrializzare l’agricoltura significa dare priorità alla t/Terra, alla Terra intesa come universo cosmico e alla terra intesa come zolla che si calpesta, sulla quale si cammina, si produce. Deindustrializzare l’agricoltura significa avere coscienza della t/Terra come vita e come luogo della vita. La t/Terra ha contenuto e forma della vita. Deindustrializzare l’agricoltura significa prendersi cura della t/Terra, rispettare i suoi cicli, i suoi ambienti, i suoi prodotti. Il maiuscolo della Terra - il pianeta, i suoi ambienti, i suoi abitanti, le relazioni tra di loro, il luogo di possibilità della vita - con il minuscolo della terra - il luogo nel quale si vive e si producono relazioni sociali, produttive, culturali, affettive, il luogo delle esistenze individuali - non possono nonavere relazioni di coerenza e di conseguenza. È questo il quarto atto della sensibilità planetaria: avere rispetto per la sensibilità della t/Terra. Tutti i processi produttivi che, con o senza l’uso delle macchine, non tengono conto della sensibilità della terra o deliberatamente la distruggono, vanno combattuti con la terra, per la Terra. L’attività di produzione agricola è sempre, occorre ricordarlo, un’attività di coproduzione, uno scambio continuo e fecondo della relazione uomo-terra. L’industrializzazione dell’agricoltura ha commesso la barbarie di ridurre la terra a mero mezzo di produzione, a macchina. Nell’agricoltura contadina deindustrializzata che noi invochiamo l’uomo e la terra sono coproduttori di una relazione continua prima ancora che di un prodotto. Il prodotto derivato dal legame di coproduzione mantiene ed esalta la sensibilità di questa relazione. L’agricoltura industriale ci ha indotto a concepire il nutrirsi come mera introiezione di cibo destinata a dare energia alla nostra macchina, il corpo. Così come si fa con l’automobile, siamo indotti a ingerire cibo al posto della benzina con il paradosso che nel mentre si tenta di produrre combustibili naturali, si massimizza la ricerca per produrre cibi industriali. L’agricoltura contadina deindustrializzata ci insegna invece che nutrirsi non è una mera attività di autoalimentazione. Gli alimenti sono il risultato di un’intensa attività di scambio uomo-natura, di relazioni sociali radicate nella storia e nella cultura, di straordinarie creatività produttive. Cibarsi vuol dire avere sensibilità di tutto ciò, cibarsi non vuol dire soltanto alimentare il proprio corpo, ma nutrire la socialità, le reti di saperi, i piaceri che ruotano intorno alla sua attività. Il prodotto della terra molto prima di essere una merce è il il frutto di una doppia relazione con gli uomini e con l’ambiente. Non a caso il progetto t/Tl/cw nasce intorno a Luigi Veronelli, compagno di sensibilità planetaria e di agricoltura contadina. Veronelli ci ha dimostrato come ogni frutto della terra debba essere trattato con l’identica cura, con il medesimo amore; come ritracciare le reti di saperi necessari alla sua riproduzione e alla sua esaltazione. Ci ha mostrato che gustare un prodotto della terra significa avere sensibilità per il mondo intero. Per questo non ama quell’addomesticamento del gusto che proviene dal produrre tutto con gli stessi metodi, con le identiche materie prime. La lotta a favoredella biodiversità è anche una lotta contro l’annullamento del gusto, contro la distruzione della sensibilità; non è un semplice amore nei confronti delle diversità del mondo. È la presa d’atto che l’amore per inscindibile dall’amore per il mondo, che il il mondo sono frutto di una relazione creativa continua, relazione che deve avere nella sfera produttiva non, come avviene, il suo annichilimento, ma il suo potenziamento, non lo squilibrio sfrenato, ma una barriera alla polarizzazione economica, non la distruzione degli ambienti e delle società, ma la loro libera espressione. t/Tl/cw ha collocato al centro della sua progettualità il sistema di relazioni che a partire dalla terra conduce alla Terra e viceversa. Un bicchiere di vino, come qualsiasi altro prodotto della terra, può porre l’attenzione sul circuito virtuoso che deve unire la produzione al consumo; quel circuito è fatto di qualità dell’ambiente, qualità delle relazioni sociali e qualità dei prodotti. Se uno di questi elementi viene a mancare il circuito virtuoso si interrompe. Venendo a mancare uno di questi elementi ogni principio di qualità è falso. Cominciano a rendersene conto in tutto il mondo: se le galline vengono costrette a diventare unicamente macchine di produzione di uova, a vivere in ambienti di vergogna, a ingozzarsi di aumentatori prodigiosi di peso, come si può pretendere che le loro uova non siano malate. Se le galline, come la terra, come gli uomini, come le piante, sono ridotte a mera macchina produttiva, alimentata il più possibile e il più velocemente possibile, ciò che proviene dalla loro produzione sarà altrettanto infelice dei volatili gonfiati in terribili fabbriche d’infelicità. Una macchina d’infelicità, chiamiamolo uomo o pianta o terra o gallina, non interessa, non può che produrre altra infelicità. Solo la sragione, ammantata da raziocinio iperproduttivistico, ha potuto concepire macchine d’infelicità così disgustose. Il rifiuto di produrre e di consumare l’infelicità del mondo è il quinto atto della sensibilità planetaria. Le uova prodotte dalla macchina d’infelicità delle galline non possono che essere disgustose. Così i frutti, i cereali, gli ulivi, le viti: se sono prodotti dalla macchina d’infelicità della terra non possono che essere disgustosi. Così le macchine, i vestiti, i pensieri, gli oli, i vini: se sono prodotti dalla macchina d’infelicità degli uomini non possono che creare disgusto. L’industrializzazione dell’agricoltura ha commesso la barbarie di ridurre la terra a mero mezzo di produzione, a macchina. Nell’agricoltura contadina deindustrializzata che noi invochiamo l’uomo e la terra sono coproduttori di una relazione continua prima ancora che di un prodotto. Il prodotto derivato dal legame di coproduzione mantiene ed esalta la sensibilità di questa relazione. L’agricoltura industriale ci ha indotto a concepire il nutrirsi come mera introiezione di cibo destinata a dare energia alla nostra macchina, il corpo. Così come si fa con l’automobile, siamo indotti a ingerire cibo al posto della benzina con il paradosso che nel mentre si tenta di produrre combustibili naturali, si massimizza la ricerca per produrre cibi industriali. L’agricoltura contadina deindustrializzata ci insegna invece che nutrirsi non è una mera attività di autoalimentazione. Gli alimenti sono il risultato di un’intensa attività di scambio uomo-natura, di relazioni sociali radicate nella storia e nella cultura, di straordinarie creatività produttive. Cibarsi vuol dire avere sensibilità di tutto ciò, cibarsi non vuol dire soltanto alimentare il proprio corpo, ma nutrire la socialità, le reti di saperi, i piaceri che ruotano intorno alla sua attività. Il prodotto della terra molto prima di essere una merce è il frutto di una doppia relazione con gli uomini e con l’ambiente. Non a caso il progetto t/Tl/cw nasce intorno a Luigi Veronelli, compagno di sensibilità planetaria e di agricoltura contadina. Veronelli ci ha dimostrato come ogni frutto della terra debba essere trattato con l’identica cura, con il medesimo amore; come ritracciare le reti di saperi necessari alla sua riproduzione e alla sua esaltazione. Ci ha mostrato che gustare un prodotto della terra significa avere sensibilità per il mondo intero. Per questo non ama quell’addomesticamento del gusto che proviene dal produrre tutto con gli stessi metodi, con le identiche materie prime. La lotta a favore della biodiversità è anche una lotta contro l’annullamento del gusto, contro la distruzione della sensibilità; non un semplice amore nei confronti delle diversità del mondo. È la presa d’atto che l’amore per inscindibile dall’amore per il mondo, che il sè è il mondo sono frutto di una relazione creativa continua, relazione che deve avere nella sfera produttiva non, come avviene, il suo annichilimento, ma il suo potenziamento, non lo squilibrio sfrenato, ma una barriera alla polarizzazione economica, non la distruzione degli ambienti e delle società, ma la loro libera espressione. t/Tl/cw ha collocato al centro della sua progettualità il sistema di relazioni che a partire dalla terra conduce alla Terra e viceversa. Un bicchiere di vino, come qualsiasi altro prodotto della terra, può porre l’attenzione sul circuito virtuoso che deve unire la produzione al consumo; quel circuito fatto di qualità dell’ambiente, qualità delle relazioni sociali e qualità dei prodotti. Se uno di questi elementi viene a mancare il circuito virtuoso si interrompe. Venendo a mancare uno di questi elementi ogni principio di qualità è falso. Cominciano a rendersene conto in tutto il mondo: se le galline vengono costrette a diventare unicamente macchine di produzione di uova, a vivere in ambienti di vergogna, a ingozzarsi di aumentatori prodigiosi di peso, come si può pretendere che le loro uova non siano malate. Se le galline, come la terra, come gli uomini, come le piante, sono ridotte a mera macchina produttiva, alimentata il più possibile e il più velocemente possibile, ciò che proviene dalla loro produzione sarà altrettanto infelice dei volatili gonfiati in terribili fabbriche d’infelicità. Una macchina d’infelicità, chiamiamolo uomo o pianta o terra o gallina, non interessa, non può che produrre altra infelicità. Solo la sragione, ammantata da raziocinio iperproduttivistico, ha potuto concepire macchine d’infelicità così disgustose. Il rifiuto di produrre e di consumare l’infelicità del mondo il quinto atto della sensibilità planetaria. Le uova prodotte dalla macchina d’infelicità delle galline non possono che essere disgustose. Così i frutti, i cereali, gli ulivi, le viti: se sono prodotti dalla macchina d’infelicità della terra non possono che essere disgustosi. Così le macchine, i vestiti, i pensieri, gli oli, i vini: se sono prodotti dalla macchina d’infelicità degli uomini non possono che creare disgusto. Nell’assaggio di un vino si annuncia o si denuncia il sistema delle relazioni necessarie per crearlo. Veronelli ci ha svelato questa verità. La verità del vino non deriva dalla semplice funzione di costringere alla sincerità il parlante. L’effetto di verità del vino consiste soprattutto nella possibilità di cogliere la felicità o l’infelicità delle relazioni produttive, sociali, di scambio con la natura e l’ambiente da cui proviene. Non è la prima volta che accade. Già Odisseo bloccò la furia antropofaga di Polifemo grazie al vino. 5. COMBATTERE IL GIGANTISMO INDUSTRIALE Odisseo sconfisse il ciclope con il vino. Odisseo battè il gigante che se ne infischiava delle leggi dell’ospitalità, che disprezzava gli uomini al punto da mangiarli vivi. Tocca riarmarsi del miglior vino come viatico per sconfiggere il ciclope della modernità, il gigantismo industriale che nell’agricoltura, come nella società di tutto il mondo, va fagocitando ambienti, culture, uomini. Il gigantismo industriale è un effetto dell’economia drogata delle grandi multinazionali. La bolla che trascina per il mondo i suoi effetti devastanti sull’economia, sui mercati finanziari e tra le società di tutto il pianeta un effetto del gigantismo industriale delle grandi multinazionali. Per quanto drogate da guerre terribili e stupide, da fiumi di denaro pubblico, da generose misure fiscali, da incentivi reiterati oltre ogni decoro, una parte notevole dei grandi gruppi industriali di livello internazionale o sono, nel migliore dei casi, in una situazione di stagnazione o non dichiarano apertamente il loro stato di crisi perchè tale atto li farebbe precipitare nel baratro. L’economia internazionale sta al palo come quell’asino che si ostina a non correre nonostante tutti i fischi lo invitino a muoversi. Come quell’asino, l’economia internazionale si ostina a non muoversi perchè tutti quei fischi anzichè aiutarlo a muoversi lo paralizzano più di quanto già non sia paralizzato. Fuor di metafora, a livello internazionale si continua a pompare un pallone, le grandi multinazionali, che doveva scoppiare da tempo. E non dovrebbe scoppiare a causa della contrazione dei consumi, della congiuntura internazionale, delle mutate ragioni di scambio. Questi e ad altri sono soltanto epifenomeni. La ragione vera della loro situazione non dipende dal resto del mondo, non esogena. Dipende dal loro mondo, ha una causa endogena. Le grandi multinazionali stanno scoppiando semplicemente perchè sono dei palloni gonfiati, costituiscono delle ciclopiche fabbriche d’infelicità. Analizzare la crisi delle grandi major esclusivamente attraverso il ciclo del mercato internazionale a nostro avviso è un grave errore metodologico. Risultati migliori, se non proprio risolutivi, li dà l’analisi del loro funzionamento interno, delle loro catene di controllo, dei loro processi decisionali, dei loro bilanci, del loro indebitamento, dell’intricata selva d’incroci con apparati politici e finanziari. Attraverso lo sguardo meticoloso e attento di questo labirinto d’affari - per la cui comprensione il semplice e mitico filo d’Arianna rimane di gran lunga più utile di tutte le informazioni riservate e segrete - ci si convince che le loro fondamenta sono completamente marce. Le grandi multinazionali sono colpite tutte dalla medesima malattia che chiamiamo gigantismo. I dinosauri della contemporaneità, come quelli della paleontologia, più che per improbabili piogge meteoritiche o per altrettanto improbabili repentine modificazioni climatiche, rischiano di scomparire per il loro gigantismo. Mano a mano che diventano più grandi assorbono aria e acqua in quantità spropositata, distruggono le foreste, rendono precarie le altre forme di vita. Il gigantismo industriale si comporta esattamente così. La sua malattia deriva dal male che ha arrecato al mondo: squilibri mostruosi, città invivibili, ambienti devastati. Il mondo costretto a divenire una fabbrica d’infelicità si va ribellando ai suoi ciclopi, non sopporta più le loro angherie. Le grandi multinazionali sono oggi il più grande monumento alla diseconomia, una dimostrazione palese di come si possa generare tanta miseria da un’infinita ricchezza. Le grandi multinazionali operano nello spazio globalizzato non tanto e non solo per laloro dimensione internazionale, ma soprattutto per gli interessi che nei vari Stati si coagulano intorno ad alcuni settori dell’economia e ad alcuni suoi gruppi. Nello spazio globalizzato, le grandi multinazionali non portano il vento che supera i confini, ma gruppi d’interessi fortemente cristallizzati in ogni Stato che nello spazio politico e finanziario dei singoli paesi hanno le loro ragioni d’esistenza. Come e più delle aziende del socialismo realizzato, le grandi multinazionali vengono foraggiate dallo Stato. Come in quel caso, il motivo formale del salasso deriva dall’interesse nazionale, ma il motivo reale è la rete di mutua solidarietà che da tempo è stabilita, sia pur coi movimenti tellurici del caso, tra grandi gruppi industriali, grandi banche e apparati politici. Anche in questo caso, dietro l’ideologia dello Stato, è cresciuta una cancrena di interessi, di valzer di poltrone e di vorticosi movimenti finanziari. Il grumo d’interessi tra apparati industriali, finanziari e politici ha creato così tali distorsioni nel mercato mondiale che i conflitti d’interessi maturati in casa nostra sono una ridicola inezia. Tale grumo, anche se viene presentato come mutuo sostegno tra politica ed economia, in verità li uccide entrambe. Li uccide perchè la grande impresa multinazionale mortale. È mortale perchè il gigantismo non crea economia di scala, riduzione dei costi, penetrazione spaziale. Il gigantismo crea soprattutto diseconomie. Per fare impresa a livello internazionale, in un’economia globalizzata, non occorrono organizzazioni elefantiache e masse monetarie straordinarie. Decenni dopo la crisi del gigantismo urbano delle aree a capitalismo avanzato, si continua a insistere sui benefici per l’economia intera del gigantismo industriale che era la causa di quello urbano. 6. CONTRO IDENTITARISMO E GLOBALIZZAZIONE (due facce della stessa medaglia) PER UNA SENSIBILITA' PLANETARIA Il grumo d’interessi e di azioni che si è formato tra grandi multinazionali, apparati politici di ogni Paese e principali istituti di credito ha favorito un’evolversi del sistema planetario di dominio che con ritmi implacabili distrugge risorse, ambienti, relazioni. Ciò ha favorito per contrappeso l’emergere di tutti i localismi e di molti identitarismi i quali non possono che rimanere come elementi residui, materiali di scarto che la globalizzazione trasporta con Il sesto atto della sensibilità planetaria/ribelle è il rifiuto netto, inderogabile, di ogni localismo politico e identitario. Il locale che si contrappone al globale non è nient’altro che il suo gemello stupido, rancoroso e noioso. t/Tl/cw può valorizzare l’autoctonia (per noi: “simbiosi culturale”, “acclimatazione” ) dei prodotti della terra, ma in modo diametralmente opposto a quanto fanno tutte le culture che invocano i diritti del sangue e del suolo. Il mito delle origini, l’attaccamento alle radici sia sul piano culturale sia sul piano politico hanno già prodotto i loro mostri del piagnisteo nostalgico e dell’odio nazionalistico; la loro sterilità sul piano culturale e artistico si è trasformata nel più grande strumento di rancore e nella più stolta macchina di proliferazione delle guerre e dei razzismi. Basta guardarsi sotto i piedi, l’uomo non ha radici e se fosse identico a ciò da cui origina avrebbe ben poco da gloriarsene. Le uniche radici umane che ci interessano sono quelle dell’uomo sradicato che cerca il contatto continuo con l’aria per purificarsi da tutte le ignominie del particolarismo, del familismo, del tribalismo, del culturalismo differenzialista, delle comunità terribili e di ogni posticcia identità. L’identità è lontana dall’umanità ed opposta all’uguaglianza. La sensibilità planetaria rifiuta ogni localismo e concorre a costruire e a diffondere, contro la globalizzazione, prassi e idee internazionali, cosmopolitiche, apolidi che hanno come fulcro, nella modificazione dei rapporti di produzione, la doppia centralità della relazione con l’ambiente e con le società. La sensibilità planetaria ama i particolari perchè rifiuta ogni particolarismo, ricerca gli originali perchè non crede alle origini, valorizza il locale perchè si sente puzza di muffa in ogni localismo. La sensibilità planetaria non guarda con occhio nostalgico al passato, ne è acquisita per sempre; una sensibilità in divenire. La valorizzazione della terra, quella su cui viviamo e che calpestiamo, non è obbligata a produrre disvalore della Terra, dell’elemento cosmico, anzi quest’ultima, con la sensibilità planetaria che comporta, la condizione fondamentale perchè ogni zolla di suolo possa essere riconosciuta nel suo grande valore. L’autoctonia di un prodotto della terra non ha nulla a che fare con la ricerca mitologica delle origini, su cui accampare qualche stolto diritto. In tutti i prodotti della terra ciò è impossibile. L’agricoltura nasce dal nomadismo. Dal nomadismo degli uomini e dal nomadismo delle piante. Tutto ciò di cui ci alimentiamo ha un’origine alloctona. Invochiamo invece il diritto/dovere di non impoverire la biodiversità del pianeta, la necessità di accorciare la catena alimentare, la possibilità di costruire una nuova contadinità fondata sulla massima tracciabilità dei prodotti e dei prezzi, sulla cura per la terra e per le relazioni sociali che vi si instaurano. 7. CONTRO GLI OGM: CRIMINI CONTRO L'UMANITA' (E CONTRO LA t/TERRA) Non abbiamo nulla in contrario a che si consumino prodotti di altre terre. Siamo anzi felici di conoscerli e di gustarli. Non accampiamo alcun protezionismo per contrapporci di principio ai mercati internazionali. Se difendiamo e valorizziamo i prodotti della singola terra lo facciamo nella speranza che in ogni parte del mondo si faccia altrettanto; non per contrapporre un luogo a un altro, ma per combattere le idee che ispirano i mercati internazionali attuali. Amiamo i particolari di ogni terra perchè desideriamo salvaguardare la Terra nella sua interezza, nella sua immensa possibilità di accogliere la sensibilità, la socialità, la felicità che provengono da ogni luogo del pianeta. Non siamo, lo ripetiamo, contrari in generale al mercato internazionale. È il mercato internazionale, particolarmente quello agroalimentare, nella sua configurazione attuale, che ci trova in assoluto antagonismo. È quel mercato che insiste a favorire la diffusione e la generalizzazione degli Organismi geneticamente modificati grazie ai quali molti prodotti di cui inconsapevolmente ci cibiamo sono dei veri e propri Frankenstein. Gli Ogm sono i mostri dell’agricoltura: a parte le rilevantissime questioni riguardanti gli esiti della modificazione genetica delle piante su di esse e sugli uomini, che già ci impone di combatterli, gli Ogm concentrano l’industria agricola in poche mani, impoveriscono la terra, distruggono la contadinità, eliminano o omogeinizzano il gusto. Gli Ogm costituiscono oggi la più grande minaccia alla sensibilità planetaria. Contro di essi non c’è tempo da perdere nè alcuna possibilità di mediazione. La ricerca, la sperimentazione, le legislazioni permissive, l’uso degli Ogm costituiscono un crimine contro la terra e contro l’umanità. Occorre fare di tutto perchè ciò non accada. Ma dove la coltivazione, seppur sperimentale, è consentita, bisogna con ogni mezzo distruggere gli Ogm. L’obiettivo minimo della sensibilità planetaria distruggere le legislazioni a favore degli Ogm, distruggere le coltivazioni Ogm, distruggere i prodotti Ogm in tutta la loro filiera, dalla ricerca alla vendita. Se vuoi fare una buona azione, distruggi gli Ogm. Basta andare al supermercato più vicino e aprire, rendendole invendibili, le confezioni che li contengono. Basta bruciare i campi in cui vengono coltivati. A chi invece lavora nella ricerca, nella produzione, nella vendita degli Ogm chiediamo di dimostrare la propria sensibilità planetaria disertando o sabotando a viso aperto i prodotti e le aziende Ogm. Disertare o sabotare: non c’è altra scelta. La guerra che con gli Ogm si sta conducendo contro l’umanità e contro la Terra la più stolta, la più insensata delle guerre; peggiore di tutte quelle avvenute tra gli uomini sulla terra. Gli Ogm costituiscono solo il caso più evidente dell’insensibilità planetaria della grande industria agroalimentare contemporanea. Non è bastato il disastro di Bhopal in India nel 1984 per inibire la produzione, la diffusione e l’uso di fitofarmaci. Sull’altare di una presunta maggiore produttività si continua ad avvelenare la terra, le piante, gli animali e gli uomini. Tutta la catena alimentare è avvelenata. E come se non bastasse, gli stessi protagonisti della politica agricola che hanno avvelenato la terra ci vogliono far credere che l’unico rimedio ai fertilizzanti e ai concimi chimici sia l’uso degli Ogm. Per combattere l’avvelenamento della terra ci vogliono convincere che l’unico rimedio ucciderla definitivamente. Noi siamo contro gli Ogm e contro l’avvelenamento della terra. Alla barbarie degli Ogm e dei fitofarmaci vi sono alternative praticabili e praticate in tutto il pianeta. Gli Ogm e i fitofarmaci sono funzionali a un mercato internazionale che anche in agricoltura favorisce il gigantismo industriale. Ma se in altri settori il gigantismo ha procurato danni inenarrabili, in agricoltura è letale. Si favoleggia che per avere una dimensione internazionale un’azienda vitivinicola, per esempio, debba produrre non meno di due milioni di bottiglie di vino. Il che equivale a dire che per avere la dimensione internazionale richiesta deve derogare a tutti i principi di qualità e di tracciabilità, non deve produrre vini che abbiano la dignità di questo nome. “Il peggior vino contadino migliore del miglior vino industriale”, un’antica e vera provocazione di Veronelli. La riaffermiamo poichè anche se un contadino conoscesse poco l’arte di produrre il vino (o qualsiasi altro frutto della terra) potrebbe almeno garantire, diversamente dall’industria, la tracciabilità del prodotto e la provenienza della materia prima. Nell’agricoltura, il gigantismo industriale è letale, ma anche ridicolo. Una multinazionale delle uova fresche potrebbe risultare una barzelletta, eppure vi sono multinazionali simili che per spacciare presunti prodotti freschi hanno dovuto far mutare leggi, regolamenti, protocolli di produzione. Il gigantismo industriale in agricoltura è una sciocchezza, poichè per produrre garantendo alta qualità e tracciabilità del prodotto tutto occorre fare tranne che trasformare gli agricoltori in industriali o ancor peggio in finanzieri. Il caso Parmalat dimostra tutta la follia del gigantismo industriale in campo agroalimentare. Per tutelare la terra e i suoi ambienti, per garantire l’approvvigionamento alimentare, per assicurare la qualità e l’economicità dei prodotti il gigantismo industriale non solo non è efficace, ma è il peggior nemico. 8. RIDURRE LA DISTANZA ALIMENTARE, ACCORCIARE LA CATENA COMMERCIALE La sensibilità planetaria non si costruisce con le pur eccezionali esperienze marginali o di nicchia. Non vogliamo salvaguardare alcuna nicchia di potere o di mercato, commerciale o produttiva. Intendiamo concorrere a definire modalità di produzione, di commercializzazione e di consumo universali in aperto antagonismo con quelle esistenti. Siamo risolutamente contro la retorica, e la presa in giro, dei prodotti tipici. Essi non si contrappongono alla normalità, terribile e disgustosa, dei prodotti dell’industria agroalimentare; sono, invece, il risvolto elitario e identitario degli squilibri socio economici esistenti, prodotti di consumo che, magari a caro prezzo, proteggono le classi abbienti dagli alimenti spazzatura propinati dall’industria agroalimentare, barriera alimentare salutista e sicuritaria contro la misera, la malattia e le paure delle folle. Non è un caso che per tentare di bloccare il movimento delle Denominazioni comunali, proposto da Luigi Veronelli, si siano affrettati a inventarsi la Res Tipica. La differenza tra le due proposte indica la posta in gioco e le filosofie diametralmente opposte di concepire le cose. La Denominazione comunale prevede che la produzione, e la provenienza della relativa materia prima, di ogni singolo territorio sia garantita e certificata dal sindaco (meglio dalla comunità); un potente fattore di decentralizzazione dei poteri sull’economia; permette la localizzazione e la visibilità delle responsabilità relative ai rapporti di produzione, alla qualità e ai prezzi dei prodotti; una proposta semplice e universale che contrasta e supera tutte le ciance rispetto al federalismo. La Res Tipica, invece, un’operazione di marketing che, all’ombra dei regolamenti, dei riconoscimenti e dei finanziamenti europei, promuove qualche singolo prodotto locale dell’industria agroalimentare nella rete commerciale nazionale e internazionale. Noi non siamo contrari al mercato internazionale, ma riteniamo che l’ossessione di commercializzare i prodotti oltre frontiera può creare nocumento alla qualità della terra, al gusto dei prodotti e all’equilibrio socioeconomico. Intendiamo scongiurare che il culto dei prodotti tipici crei un mercato internazionale di nicchia puro appannaggio delle classi abbienti e a beneficio di pochi produttori dell’industria agroalimentare locale.E' questo il motivo per cui le nostre iniziative si occupano di tutta la filiera produttiva e commerciale. La produzione, ogni produzione, prima ancora di costruire prodotti e merci determina sistemi di relazioni sociali e ambientali. I sistemi della relazione sociale e ambientale devono essere curati all’inizio di ogni processo produttivo, non delegati allo Stato una volta che siano stati procurati enormi squilibri e immani danni agli uomini e all’ambiente. L’attuale economia internazionale funziona come il più famigerato dei coccodrilli: nel corso di ogni suo processo rovinosa degli ambienti e delle società, poi, quando i danni compiuti creano difficoltà alla stessa possibilità di rinnovare il processo produttivo, piange sull’esistenza dei danni e cerca riparo negli interventi dello Stato. Badando soltanto alla creazione di ricchezza monetaria non si interessa dell’immensa miseria che produce. Calcolati i costi sociali e ambientali e i benefici monetari prodotti non si fa fatica a rendersi conto che l’economia contemporanea cammina a passo di gambero: la ricchezza che produce è inferiore alla miseria che nel contempo crea. Per contrastare le diseconomie dell’attuale modo di produzione non basta abbaiare alla luna, invocare interventi degli stati e le riforme degli organismi internazionali. Tutto ciò può essere necessario, ma non risolutivo. Le rivoluzioni dell’alto non sono foriere di trasformazioni positive, effettive e durature. invece prioritario innovare totalmente le modalità del produrre, del commerciare e del consumare. In questa innovazione il problema fondamentale non è il diverso rapporto con lo Stato o con altri diversi poteri. Ciò che diventa centrale è la trasformazione del rapporto di ciascuno e di tutti con la produzione, lo scambio e il consumo. Chi si è avveduto del lato speculare e residuale rispetto alla globalizzazione dei movimenti identitari si proposto come new global propugnando una globalizzazione dal basso da contrapporre a quella del potere. Ma l’alto e il basso sono diversi angoli visuali di un unico movimento. Contrapporre una buona società a un cattivo potere non la riteniamo una favola per non far torto alle fiabe. La sensibilità planetaria è sensibile alle favole, dunque non può sopportare le sciocchezze. Nel sistema di dominio planetario che comunemente si chiama globalizzazione invocare le lotte dei presunti dominati contro il potere dei supposti dominanti non basta. La società non è l’innocente oltraggiato dal potere nè un mero oggetto di dominio. La società produce i suoi poteri più di quanto ne sia oggetto. Lo sguardo che fa attenzione particolarmente al dominio del potere non fa altro che tollerare, giustificare, preservare, tutti i sistemi di dominio che occupano ogni sfera della società e che si riproducono in sua rappresentanza nelle sfere del potere politico. Il potere politico che si antepone alla società è un mero effetto dei poteri creati dalle relazioni sociali date. Uno dei limiti del movimento antiglobalizzazione è stata la sua sovraesposizione politica, la sua pretesa di modificare le regole del potere politico attraverso l’uso della rappresentanza politica. Da questa ossessione per la rappresentanza deriva il suo eccessivo carico simbolico e la sua fortespettacolarizzazione. Il sesto atto della sensibilità planetaria/ribelle rifiuta questa contrapposizione speculare. La sensibilità planetaria non propugna un’altra globalizzazione, ma cerca una via di fuga sia dal localismo sia dalla globalizzazione. Il localismo è nemico della sensibilità planetaria. La globalizzazione la distrugge. Come ogni altro movimento che ha puntato sulla politica, anche questo divenuto un movimento d’opinione capacissimo di riempire le piazze delle città e le piazze virtuali della televisione, ma in difficoltà nel produrre rapide trasformazioni negli stili di vita e nell’esistenza degli abitanti del pianeta. L’eccesso nell’uso della politica vige anche nel contrapporre una globalizzazione buona a un’altra, quella del potere, cattiva. Una rivoluzione vera non fa mai appello al potere, si fonda al contrario sulle trasformazioni delle modalità di esistere, degli stili di vita, delle forme dell’agire. Una rivoluzione cambia lo sguardo sul mondo, agisce sui comportamenti minuti, quotidiani, fonda nuove modalità di relazione tra gli uomini, le donne e ogni forma di vita del pianeta. Una rivoluzione vera distrugge gli ordini consolidati e rifiuta le gerarchie, anche tra città e campagna. Il sol dell’avvenire per due secoli non ha illuminato la terra, splendeva in città tra le ciminiere degli opifici che portavano al cielo i loro aliti di libertà seppellendo con tutti i miti della campagna anche i suoi rancori, le sue vandee, le schiavitù del lavoro e le culture ritrite fatte più di tabù che di precetti, più di incubi che di fiabe. Negli ultimi due secoli alla terra è toccato il ruolo di puro mito delle origini, di luogo del ricordo, di fantasma del passato. La terra per due secoli non ha avuto futuro e nel passato che evocava, condito sia pure con gli affetti verso i padri, non si faceva fatica a smascherare il volto più puro della reazione e del risentimento. Il sol dell’avvenire per due secoli ha illuminato solo le città. Dopo due secoli, quel sole dell’avvenire - che pure ha scaldato mille battaglie, che ha presentato finalmente al mondo il volto e la bellezza delle donne, che ha espresso la furia e le sconfitte proletarie - non ha ancora smesso di brillare nelle vetrine patinate dei centri storici di ogni città, ma ormai abbaglia. Nella sua intensa luce non si vede alcuna strada, il futuro non gli appartiene più ; e il presente appare devastato, affaccendato in un ansioso perditempo che si insiste a chiamare lavoro, barricato nelle mille paure della quotidianità che richiedono svolte sicuritarie, paranoia del controllo, barriere alla socialità, muri alle frontiere dello Stato, della regione, della provincia, del comune, della casa, della stanza, muri dietro i quali ci è permesso finalmente di osservare con un briciolo di cinismo - tutelato dalla nostra televisione e dal cibo che ingurgitiamo pi per ossequio alle nostre nevrosi che per il piacere del gusto - che la devastazione in effetti c’è , ma è lì dentro, ovvero fuori, in un mondo alieno. L’ultima luce del sol dell’avvenire, quello della ricchezza, va finendo anche di abbaiare. Diversamente dall’esperienza contadina millenaria, il sol dell’avvenire delle città del gigantismo industriale ha inteso convincerci che la ricchezza fosse proporzionale al lavoro svolto. Ma nelle città del presente che non ha futuro, la ricchezza della cittadinanza non si basa sul lavoro; i lavoratori affaccendati in mille mestieri sono mille volte poveri e mille volte precari. Dopo due secoli il sol dell’avvenire volta le spalle alla città. Solo quando il gigantismo urbano ha rischiato di distruggere la Terra si è capito che da quelle città non potevano che nascere deserti. Solo allora la contadinità planetaria ha cominciato a divincolarsi dalle braccia prepotenti dell’industria e della chimica, a guardare con sospetto le città, dalle quali pur proviene, e a cominciare il suo lento cammino di riproposizione della terra come luogo non marginale. La battaglia perchè esista un sole sul presente della terra inizia dall’esodo dalle città e dal ritorno in esse dopo la cura e la trasformazione delle campagne. La terra non è più solo passato. Ha un presente fondamentale per la Terra delle campagne e per la Terra delle città, per quella degli uomini e per quella delle piante. 9. PER UNA CONTADINITA PLANETARIA Riruralizzare il mondo partendo da una sensibilità antigerarchica che ci fa percepire la t/Terra come casa propria, contro l’attaccamento conservatore e l’invenzione localista delle radici, contro il rapporto razzista sangue-suolo di infausta memoria. Per un’agricoltura cosmopolitica, utopica e - con un ossimoro concettuale - per un’agricoltura nomade, per un rapporto nomade con la Terra: sentirsi a casa propria in ogni luogo della Terra, su ogni zolla di terra. Un’idea che viene da lontano. Forse qualcuno ricorda ancora quel canto proletario dell’Ottocento: “Nostra patria è il mondo intero, nostra idea la libertà…”. Partendo da questi presupposti, la contadinità planetaria è il settimo atto della nuova sensibilità: il miglior modo per aver cura del pianeta è prendersi cura, personalmente e collettivamente, di ogni sua forma di vita e di ogni relazione tra organico e inorganico. questo anche il miglior principio produttivo. La produzione di merci anche in agricoltura è l’elemento più enfatizzato del processo produttivo. Ma la merce è l’elemento simbolico finale di un processo che va seguito dalla fonte, dalla sorgente produttiva. La produzione sorgente indica lo stato dell’aria, della terra, del seme, della pianta. Tutto ciò deve essere ritenuto materia prima; l’equilibrio e la qualità della produzione discendono dall’equilibrio e dalla qualità della materia prima. La materia seconda della produzione sorgente riguarda il rapporto tra i produttori e la materia prima. Se le galline sono lasciate libere al razzolio e i contadini sono trattenuti in catene o pagati al giorno meno del costo di un uovo di gallina, le uova che si venderanno potranno essere buone al gusto, ma faranno schifo alla sensibilità planetaria. Il reddito degli agricoltori, autonomi o dipendenti, non può e non deve essere al riparo della discussione e dei conflitti intorno ai prodotti della terra. La nostra contrarietà all’agricoltura industriale deriva anche da questo fattore. La specificità dell’attività lavorativa e la remunerazione dell’attività agricola sono aspetti fondamentali per il successo della nuova contadinità. Essa non deriva dalla riproposizione romantica del mito della terra. La nuova contadinità opera una trasformazione profonda dei rapporti di produzione in agricoltura proprio perchè deriva da uno iato profondo con la contadinità classica. Per quanto possa sembrare paradossale, la nuova contadinità, in particolare quella dei paesi a capitalismo avanzato, non origina specificamente dalla terra, ma deriva da un movimento nomadico di riappropriazione della terra di una nuova soggettività agricola che proviene dalla città o, molto spesso, addirittura dalla metropoli. La tradizione contadina si rifletteva e moriva nella miseria dei rapporti di produzione in agricoltura, guardava alla città come fonte di ricchezza e di superiore esistenza. Il mito della città si è fatto sentire massivamente in agricoltura dove sono stati impiantati gli identici modelli industriali che andavano distruggendo le città (iperproduttivismo, fordismo, concentrazione della proprietà e della produzione, finanziarizzazione dei processi produttivi, uso della terra come mero mezzo di produzione, introduzione massiccia della chimica e relativi problemi di inquinamento). Siamo arrivati al paradosso che la campagna può essere, e spesso lo è , più inquinata della città. La nuova contadinità nasce dalla distruzione di quella classica e dal rifiuto del gigantismo urbano. Il movimento di riruralizzazione! E' un atto di critica profonda alle modalità del vivere e del produrre della città contemporanea. La nuova contadinità non nasce semplicemente dalla terra, ma si trasferisce sulla terra con questa radicalità d’esperienza. La soggettività che attua questo movimento nomadico dalla città alla terra non può non notare che intanto l’urbanizzazione della campagna aveva prodotto grandi disastri. La critica operata al modello urbano assume i suoi aspetti creativi e trasformativi nelle campagne. Le esperienze, per esempio, della produzione biologica e biodinamica, la ripresa della piccola proprietà in agricoltura, il rifiuto dell’industrializzazione agricola, l’organizzazione delle prime nuove filiere della produzione e del consumo provengono anche da questo movimento lungo e sotterraneo che porta soggetti urbani con alle spalle esperienze politiche e di sapere a occuparsi della terra. Il rifiuto dell’industrializzazione selvaggia della campagna e soprattutto la resistenza contro la riproduzione in essa dei miti del produttivismo urbano creano un doppio movimento nomadico. Il primo, già ben delineato, parte dalle città e può modificare profondamente i rapporti di produzione in agricoltura; il secondo, appena iniziato e di cui t/Tl/cw esprime l’elemento aurorale, tende - e intende - trasformare radicalmente i rapporti di produzione nelle città. La nuova soggettività contadina, infatti, è impossibilitata a costruire nuovi miti autocentrati, percepisce ed esperisce che la città non è un elemento di antagonismo, ma di prossimità. Prossimità geografica dovuta all’espansione urbana e all’infittirsi delle reti viarie; prossimità di conoscenze relative all’esistenza, e all’uso, delle reti mediatiche e informatiche; prossimità di relazione dovuta alla costante ricerca, e alla costruzione, di mercati diretti di approvvigionamento e di collocamento della propria produzione. La nuova soggettività contadina conosce la città meglio di chi ci vive, ha relazione con le sue reti produttive superiori a quanti ne abbia un lavoratore urbano. La contadinità di nuova formazione è ricca di conoscenze e di relazioni e dispone, o ha la potenzialità di disporre, anche di redditi mediamente superiori a quelli del lavoratore urbano. Al contrario delle tante volgari ricette per combattere la disoccupazione urbana che si sono rivelate un mero strumento per mantenere la forza lavoro in stato di assoluta precarietà e subordinazione, il movimento di riruralizzazione ha costituito, e ancor di più può diventare, una parziale, ma efficace risposta ai problemi di reddito, di precarizzazione, di degrado che non potranno non esplodere nell’immediato futuro delle città. Grazie a questo doppio movimento nomadico siamo in grado di ripensare ai modelli di vita, di produzione e di consumo sia della città sia della campagna. un ripensamento che non si ferma alla critica dell’esistente, ma che costruisce il futuro di adesso nella prassi di trasformazione dei processi produttivi. questo il motivo per cui abbiamo condensato in alcune proposte pratiche, concrete, immediate, di applicazione internazionale, tutto il segno del nostro sentire. Per la realizzazione di queste proposte non facciamo leva sulle leggi, sui governi, sugli stati. La sensibilità planetaria non può essere realizzata per decreto non può arricchirsi al riparo di qualche legge. Le leggi prevedono che qualcuno le imponga ai sottoposti. È l’ottavo atto: la sensibilità planetaria facoltà di ciascuno, ma non si può imporre a nessuno. 10. PER LA RESPONSABILITA INDIVIDUALE E L'AUTOCERTIFICAZIONE Se, come riteniamo, la merce, per quanto enfatizzata, non altro che l’elemento simbolico e finalizzato dell’atto di produrre delle società contemporanee, occorre ricostruire altrimenti tutta la filiera per indicare una diversa priorità nell’ordine dei singoli atti produttivi. Finalizzare alla merce l’esistenza dell’atto produttivo comporta la mercificazione di ogni altro elemento. I rapporti di produzione sono diventati rapporti di mercificazione non perchè lo debbano essere necessariamente, ma semplicemente perchè così pretende il dispositivo macchinico dell’attuale modalità di produzione. La mercificazione dei rapporti di produzione non a caso ha significato la mercificazione della vita. Che i geni siano diventati oggetto della più grande disputa economica della contemporaneità non può sorprendere. L’oggetto vero della produzione non è mai la merce, ma è la vita. Nella fabbrica della merce si costruisce la modalità della vita. La mercificazione della vita deriva inevitabilmente dalla centralità che la merce possiede nell’atto di produzione della contemporaneità. Per sottrarre la vita alla merce occorre dunque che la fabbrica della vita costruisca la modalità della merce. Per essere pi chiari, occorre puntare su una diversa modalità dell’atto produttivo; esso definisce anzitutto il sistema di relazioni che si ha con la società e con l’ambiente. L’atto produttivo deve avere come priorità, dal suo sorgere, un sistema di relazioni fecondo ed equilibrato con la società e con l’ambiente. In questo sistema di relazioni ciascun atto produttivo deve definirsi con queste priorità che ogni produttore deve salvaguardare e potenziare. Non esistono precetti validi per tutti o imponibili per legge. Non condividiamo il fondamentalismo dei disciplinari produttivi. vero che sono stati un argine all’avvelenamento della terra e hanno consentito la diffusione normativa dei saperi, ma a volte costituiscono un puro conformismo o addirittura consentono un odioso raggiro. La corsa alla produzione biologica per esempio va divenendo una modalità di raggiro degli stessi protocolli e un modo per aumentare a dismisura i prezzi. La certificazione biologica non mette al riparo da produzioni di scarsa qualità e da pessime relazioni sociali. Il nono atto della sensibilità planetaria afferma il principio di responsabilità e l’autocertificazione. Nessuna ignominia può essere tollerata solo perchè si ripara all’ombra delle leggi. La legge non sostituisce, nè copre il deficit di responsabilità con cui ciascuno e tutti ci rapportiamo al mondo sia come produttori sia come consumatori. questo il motivo per il quale abbiamo evitato di redigere un altro protocollo universale o di invocare un’ennesima certificazione legale. Abbiamo optato, al contrario, per l’autocertificazione che chiediamo a tutti i produttori di definire con cura e di rendere chiaramente visibile. Ci siamo limitati a proporre le voci riguardanti ogni singolo atto produttivo dalle cui modalità ciascuno può farsi un’idea precisa non solo del prodotto finale ma anche del produttore e della filosofia che ispira la sua attività. Nel protocollo di autocertificazione è possibile leggere con assoluta chiarezza la materia prima - lo stato dell’aria, della terra, del seme, della pianta - e la materia seconda - il rapporto tra i produttori e la materia prima - della produzione. 11. PRODURRE IDEE SEMPLICI PER TRASFORMARE LA PRODUZIONE Il ciclo produttivo non si interrompe con la materia prima e la materia seconda. Qualsiasi prodotto continua a costruire il suo circuito di relazioni sociali e ambientali anche dopo che è stato manufatto. Pensare che la distribuzione e il consumo non facciano parte del ciclo produttivo del prodotto è fuorviante. La relazione produttiva infatti nel corso della distribuzione e del consumo dei prodotti passa dallo stato particolare a quello generale, dall’affare privato a quello sociale. In corso di fabbrica le relazioni inscritte in un prodotto comprendono, oltre alla cumulazione di relazioni precedenti, il rapporto con uno spazio per quanto grande pure è sempre ristretto e con un’unità pur sempre piccola di produttori. Nella promozione, distribuzione e consumo il prodotto acquisisce invece il suo elemento universale, non afferisce più a un rapporto privato o tra privati, ma si definisce e si sostanzia per il suo aspetto pubblico. Ancor più che nella mera fabbricazione, un prodotto definisce il suo campo di relazioni universali, sia di carattere sociale sia di carattere ambientale, per le modalità con le quali viene promosso, distribuito, venduto e consumato. I rapporti di produzione non sono esterni a questo campo ma viceversa ne sono aspetti pregnanti. In più , l’opacità dei luoghi della produzione materiale della grande industria rende difficile se non impossibile seguirne i processi. Il gigantismo industriale, con l’esternalizzazione globale, si è di fatto sottratto alla critica, allo sciopero, al sabotaggio della propria produzione materiale. iI rapporti di produzione in questa fase sono così celati agli stessi produttori. I produttori non sono più in grado di governare il processo produttivo, ma neanche la produzione materiale è in grado di governare il circuito della commercializzazione e del consumo. Anzi, le regole e le modalità della produzione materiale devono sottostare sempre più alle forme, e ai ricatti, della grande distribuzione. Il governo della filiera produttiva, e anche le modalità di appropriazione e di distribuzione della ricchezza, si possono cogliere in modo più diretto e cristallino al momento in cui la merce si gloria del suo trionfo. Quel momento, il circuito commerciale del consumo, diventa anche più direttamente e più facilmente sottoponibile alla critica, allo sciopero e al sabotaggio. La critica, lo sciopero e il sabotaggio sono armi necessarie nei confronti della grande distribuzione, senza dimenticare che è stolto rivendicare in modo pedissequo la bellezza della piccola distribuzione. I danni e i raggiri della grande distribuzione si trovano a volte ingigantiti anche nella piccola. Comunque sia, la critica, lo sciopero e il sabotaggio sono necessari, ma non sufficienti. Urge il decimo atto della sensibilità planetaria/ribelle : produrre idee semplici, efficaci, immediatamente applicabili e universali che siano in grado nel futuro presente di trasformare i rapporti di produzione, o almeno di rendere visibili le contraddizioni degli attuali rapporti di produzione. 12. PER LA MASSIMA TRACCIABILITA DEI PRODOTTI L’idea - che anche l’undicesimo atto della sensibilità planetaria - della massima tracciabilità dei prodotti e dei prezzi risponde a questi requisiti. La distribuzione attuale cela totalmente i lunghi percorsi della catena produttiva e commerciale. Noi non siamo in grado di sapere dove, chi, come e a quali prezzi si produce materialmente ciò che acquistiamo. un’ignoranza non da poco che ci consente tuttavia di capire che nel marchio del prodotto che compriamo si manifesta un’attività di espropriazione gigantesca che si compie a livello mondiale a danno dei produttori e dei consumatori. L’esproprio della conoscenza dei prodotti e dei prezzi della catena commerciale sottintende non solo un furto del sapere, un’appropriazione indebita del lavoro altrui, ma anche una rapina compiuta nell’ossequio di tutte le regole economiche internazionali. La rapina con la quale nell’attuale modalità dei rapporti di produzione la distribuzione della ricchezza privilegia il circuito commerciale a danno di quello della produzione materiale e del consumo. Costruire dunque modalità diverse di distribuzione e di commercio, che riducano la distanza tra produttori e consumatori e ne favoriscano, laddove è possibile, il rapporto diretto, è fondamentale. In tutto il mondo si vanno costruendo esperienze di gruppi d’acquisto. In Italia si vanno diffondendo i gruppi d’acquisto solidali, i Gas, che stanno compiendo una meritoria attività pionieristica nel campo. Sono esperienze diverse e a volte dissimili che vanno diffuse e potenziate. In passato, molte esperienze simili sono durate una breve stagione perchè si basavano unicamente su settori di nicchia e su rapporti amicali. Il mercato di nicchia non in alcun modo in grado di trasformare i meccanismi che presiedono ai mercati nazionali e internazionali. La marginalità può essere una scelta coraggiosa e condivisibile, ma ha il puro carattere della testimonianza. Le esperienze più feconde devono avere il carattere e la capacità di generalizzazione. L’amicalità che fa da propellente dei gruppi d’acquisto a volte si rivela un limite, perchè è grazie all’amicizia si derogano i principi di massima tracciabilità dei prodotti e dei prezzi. Capita che la fiducia diventi il surrogato della qualità, e non di rado i prezzi della catena commerciale normale si rivelano addirittura inferiori a quelli dell’acquisto diretto. In tal caso si sono compiute due truffe in una: la prima a danno del consumatore, la seconda a danno dell’amico. L’organizzazione è invece un problema rilevante per i gruppi d’acquisto. Per quanto sia amicale, piacevole e informale, un gruppo d’acquisto necessita di un minimo d’organizzazione e di dispendio di tempo che presiedono alla conoscenza e alla scelta dei prodotti e dei produttori e alla messa in campo dei relativi canali di acquisto, di trasporto e di pagamento. La grande distribuzione fa invece leva sul carattere singolare del consumatore. Organizza per lui tutto ciò che il consumatore non può o non vuole organizzare. Affinchè anche il singolo consumatore abbia la possibilità di un rapporto diretto con la produzione, avendo ciononostante garantiti i criteri di massima tracciabilità dei prodotti e dei prezzi, l’uso della rete informatica può essere molto efficace. Una prima esperienza si va sperimentando sul sito internet www.criticalwine.org con il catalogo dei produttori. Ogni produttore che aderisce ai principi del progetto t/Terra e libertà/ critical wine vi è presente con i suoi prodotti, che possono essere acquistati direttamente anche dal singolo consumatore. Molto efficace può anche essere la proliferazione delle esperienze t/Tl/ cw. 13. PER IL PREZZO SORGENTE La proposta semplice, pratica, immediatamente applicabile, universale che ha la possibilità di scardinare le attuali modalità di produzione è quella del prezzo sorgente. Il prezzo sorgente quello che i produttori fissano al momento di vendere il loro prodotto. La semplice informazione derivante dall’applicazione in etichetta - o in controetichetta - del prezzo sorgente) in grado di rendere tracciabile, visibile, evidente, certificabile la catena commerciale con i relativi ricarichi. Non occorre che al momento della vendita siano indicati in etichetta più prezzi. Il prezzo sorgente rende esplicito ogni ricarico ed evidenzia i meccanismi di appropriazione e di distribuzione della ricchezza che avvengono in tutta la filiera del prodotto, dalla produzione materiale al consumo. Il prezzo sorgente allude e rende concretamente possibile che altre modalità di produzione, di commercio e di consumo siano pensate ed esperite. Rimandiamo al relativo capitolo del libro la trattazione approfondita. Qui interessa segnalare come questa proposta di t/Tl/cw nasce da un dibattito economico e filosofico che, oltre al coinvolgimento di centinaia di produttori e di migliaia di consumatori, ha avuto come protagonisti DeriveApprodi e la Banca della Solidarietà. Inoltre, crediamo importante rispondere alle critiche che la proposta del prezzo sorgente ha avuto. La prima: ha poco senso proporre il prezzo sorgente solo per il vino. vero. Infatti non abbiamo alcun’intenzione di applicarla solo per il vino. Abbiamo iniziato a proporla ai vignaioli, e poi l’abbiamo proposta ai ristoratori e alle enoteche, durante il t/Tl/cw/fiera dei particolari al Leoncavallo. La seconda: non si può vendere a tutti un prodotto al medesimo prezzo; un conto vendere, per esempio, una bottiglia, altro conto è venderne mille. E' vero, non la stessa cosa e tanti produttori non a caso, si comportano diversamente. C’è chi non vende direttamente il proprio prodotto; chi lo vende a prezzi differenziati. Pino Ratto, uno dei poeti della terra, vende a tutti con il medesimo prezzo, ma ciascuno si comporterà a seconda della situazione e della sensibilità. Vendere direttamente può comportare, ci vien detto, un dispendio di tempo che andrebbe riconosciuto; alcuni produttori, infatti vendono in cantina con un’aggiunta del 10-15% rispetto al circuito commerciale. D’altronde, la vendita diretta consente di incassare sicuro e subito mentre nel circuito commerciale i ricavi sono dilazionati nel tempo e non sempre risultano altrettanto sicuri. Ma in ogni caso, il prezzo sorgente non entra nel merito della politica commerciale dei singoli produttori. Un produttore può, nonostante i nostri pareri contrari, vendere a prezzi differenti; nulla osta, comunque, a che li inserisca in etichetta. La terza: una cosa è vendere il vino dell’anno in corso, altro è vndere il vino invecchiato. I costi di cura e di magazzino vanno riconosciuti. Non è un problema; ciò che chiediamo è che al momento di essere venduto si indichi il prezzo che incassa il produttore. La quarta: il prezzo in etichetta, particolarmente per i prodotti di qualità, inibisce i regali. Una bottiglia di vino, per esempio, farebbe fatica a essere presentata all’amico al quale si regala con il prezzo chiaramente visibile.Posto che nulla impedisce, come si fa con i libri, di coprire o di cancellare i prezzi, questa argomentazione contro il prezzo sorgente ci permette d’iniziare a parlare di modalità diverse di consumo. E della differenza fondamentale tra regalo e dono. Chi al momento di regalare un libro ne cancella il prezzo compie, magari inconsapevolmente, una scelta che pone al centro del suo regalo non l’oggetto ma il suo prezzo. Se invece desse priorità all’oggetto del regalo, non avrebbe interesse a cancellarne il prezzo. Potrebbe essere preoccupato del diverso valore, magari di sminuizione, che il ricevente avrebbe dall’indicazione del prezzo; in tal caso nell’operazione di occultamento del prezzo si rivelerebbe anche una scarsa fiducia e stima nei confronti di chi riceve il regalo. L’oggetto più prezioso nella funzione del regalo la merce e ciò che simbolicamente la rappresenta cio'è il prezzo. Chi invece dona qualcosa a qualcuno desidera che l’oggetto del suo dono, indipendentemente dal prezzo pagato, sia posto al centro della sua scelta. In tal caso, l’ultima operazione che farà sarà quella di occultare il prezzo. Se si desidera donare un libro di poesia, il libro che si intende valorizzare presso l’amico il quale non dovrà farsi influenzare assolutamente dal prezzo. Il valore della Divina Commedia non deriva dal prezzo al quale si vende. Come per il libro, anche per il vino, anche per altri oggetti vi è un aspetto culturale che contraddistingue l’azione del regalo da quella del dono. Senza per nulla indulgere alle mitologie dell’economia del dono, nell’atto di donare, l’oggetto più prezioso che viene donato è il sè del donatore rappresentato simbolicamente attraverso l’oggetto del dono. Il regalo, al contrario, è la rappresentazione simbolica dell’economia della mercificazione totale. L’atto del dono, da distinguere profondamente rispetto all’economia del dono, espressione di un sistema della relazione sociale diametralmente opposta. Nel dono vi è l’espressione del donatore. Nel regalo vi è la sua rappresentazione nell’economia della merce. La quinta: anche i distributori e i commercianti svolgono un lavoro e hanno diritto a una remunerazione. Giusto. Non lo neghiamo affatto. Il prezzo sorgente non pretende di annullare il commercio. Intende soltanto ricostruirlo su relazioni diverse e superiori è anzitutto per ciò che attiene la fiducia. Ciò che chiediamo è che la remunerazione sia chiara, visibile e ricostruibile. La sesta: non si può pretendere che un prodotto abbia lo stesso prezzo se viene venduto in un negozio della periferia e in uno del centro (gli affitti sono diversi, come i costi del personale). Il prezzo sorgente non lo pretende affatto. Pretende, soltanto, che il commerciante spieghi ai propri clienti i motivi dei suoi superiori o inferiori ricarichi e renda possibile al consumatore di scegliere dove e come acquistare i suoi prodotti. La settima, ma la prima per importanza: l’applicazione del prezzo sorgente ci escluderebbe dal circuito commerciale. Questa paura è l’unico vero problema all’applicazione del prezzo sorgente. Molti commercianti hanno già dichiarato l’esclusione dal proprio circuito commerciale per le aziende che adottano il prezzo sorgente. Non ci stupiamo. Ciascuno tende a difendere i propri interessi, soprattutto quando sono meschini e subdoli. I commercianti che contrastano il prezzo sorgente terrorizzano i produttori perchè hanno il terrore, ben più realistico, di non poter spiegare ai loro clienti i motivi de i ricarichi che compiono sui prodotti in vendita. Ma anche nel commercio va iniziando una grande trasformazione di funzioni e di culture. I pochi commercianti che si sono finora dichiarati pronti ad applicare il prezzo sorgente hanno intuito che modificherebbero a loro favore i rapporti con i fruitori, accrescendo presso di loro enormemente il sentimento di fiducia. Ciò sicuramente comporterebbe maggiori potenzialità per la propria attività. In ogni caso, per favorire il decollo del prezzo sorgente, stiamo tentando di costruire una prima filiera protetta che ha avuto inizio al Magazzino 47 di Brescia e che riguarderà molti dei punti di vendita dei produttori del catalogo t/Tl/ cw, già disponibile sul relativo sito. Il rapporto tra merce, economia e relazioni sociali nei rapporti di produzione va totalmente ribaltato. Non neghiamo il carattere di merce che può assumere laproduzione. La merce è una delle figure importanti della produzione. Negarla per rincorrere l’economia del baratto non è una critica anticapitalistica; semplicemente una mitologia precapitalistica. Ciò che intendiamo negare risolutamente è la riduzione dei rapporti di produzione, delle relazioni sociali e dell’economia a mera merce. Il piagnisteo contro la merce non ci ha mai convinto come non ci ha mai convinto la demonizzazione del denaro. Il denaro, sia nella sua funzione di equivalente delle merci, sia in quella di mera merce, sia in quanto pura informazione, ha svolto e continuerà a svolgere una funzione eccezionale nella creazione di ricchezza. Il denaro è nel contempo una funzione e una forma della ricchezza. Noi non siamo contro la ricchezza, anzi la desideriamo per ciascuno e per tutti. Per ciascuno e per tutti la ricchezza comprende anche la forma e la funzione del denaro, ma non si esaurisce in esso; si esprime più compiutamente e più felicemente nella ricchezza delle relazioni sociali e ambientali. La trasformazione dei rapporti di produzione che esige il paradigma della sensibilità planetaria/ribelle non può non intervenire profondamente nelle modalità del consumo. Gli urli contro il consumo non hanno mai convinto la sensibilità planetaria. Somigliano all’ultima furberia dei ricchi per governare e dominare i poveri. Non è un caso che sono i ricchi, che consumano oltre ogni sproposito, a preoccuparsi delle conseguenze planetarie e ambientali del maggior consumo dei poveri. I poveri del mondo, viceversa, che non hanno il minimo per vivere, se ne infischiano delle preoccupazioni dei ricchi e desidererebbero consumare almeno il necessario per poter vivere. Occorre consumare di più in pochi, come pretendono alcuni, oppure sarebbe meglio consumare meno ma consumare tutti come vorrebbero molti altri? una diatriba poco interessante. Se il consumo venisse considerato come materia quarta della produzione, dunque inserito in un circuito di sensibilità completamente differente da quello attuale, non vi sarebbero problemi. Notiamo, per inciso, che all’ambiente del pianeta la miseria e la povertà non fanno meno danni della ricchezza e che le società dove non si consuma praticamente niente non mancano di distruggere l’ecosistema. Più che pensare alla quantità dei consumi occorrerebbe riflettere sulle funzioni, sull’impatto, sulle modalità e sulla qualità di essi. Il consumo non deve essere necessariamente pensato come distruzione di risorse. Quel consumo che distrugge le risorse non va nè ridotto nèaumentato. Va semplicemente abolito e non tanto per decreto di legge ma per accresciuta sensibilità planetaria. Il consumo che invece può essere mantenuto ed accresciuto a livello planetario riguarda la trasformazione delle risorse e il diritto che hanno gli abitanti del pianeta di godere, tutti, nessuno escluso, di esse. Vi è un consumo che continua la distruzione delle risorse operata già dalla produzione materiale dei beni. Vi può essere un consumo differente che espliciti l’avvenuta trasformazione dei rapporti di produzione e di distribuzione della ricchezza planetaria. Consumare vuol dire coprodurre Nell’attuale modalità di produzione vige un antagonismo profondo e artato tra consumatore e produttore. Un antagonismo che ha scarsa aderenza con la realtà, che deriva dalla polarizzazione delle funzioni di produzione e di consumo in sistemi di relazioni che sono interrotte dal circuito di distribuzione e di commercializzazione. La produzione è conosciuta al consumatore tanto quanto il consumo è conosciuto al produttore. Ambedue soggiacciono ai saperi e ai poteri della lunga catena commerciale che si frappone fra di loro, li domina e li sfrutta. Eppure, a ben vedere, produttori e consumatori sono inscritti in un circuito comune. Ambedue concorrono a produrre il sistema di relazioni sociali esistente e sono funzioni quotidianamente intercambiabili. Anzi, inevitabilmente, la funzione di produzione materiale è di gran lunga inferiore a quella di consumatore reale. Ciascuno produce poche cose, ma ne consuma tante di più già nel semplice atto della produzione materiale. Inoltre, il macchinismo ha comportato un ribaltamento delle gerarchie dei saperi. Un tempo, il bagaglio di conoscenze del produttore era di gran lunga superiore a quello del consumatore. Nella contemporaneità avviene il contrario. Consumare è più difficile che produrre, richiede conoscenze e relazioni sociali piùelevate. Ma consumare non è altro dal produrre. il dodicesimo, provvisoriamente ultimo, atto della sensibilità planetaria. Le scelte e le modalità del consumo, in particolare quelle che intendiamo concorrere a creare, costituiscono un circuito di coproduzione che le legano indissolubilmente alla produzione. Altri atti seguiranno o sono ravvisabili in questo come in tanti altri libri. La sensibilità planetaria si esprime nell’atto di parola, non disdegna la scrittura, ma forgia i suoi principi nella nuova alleanza che le società, gli uomini e le donne cominciano a stringere con la t/Terra. Siamo ospiti della terra: continuare a ucciderla non è che l’ultimo ciclopico tentativo di suicidio della specie. Luigi Veronelli Simonetta Lorigliola Maurizio “Muro” Murari Marc Tibaldi Pino Tripodi tratto da "Terra e libertà/ critical wine. Sensibilità planetarie, agricoltura contadina e rivoluzione dei consumi" Ed. Deriveapprodi, 2004. |
Details
AuthorDario Biagetti Archives
February 2021
Categories |