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9/18/2020

NO DOP NO DOC NO DOCG NO IGP NO BIOLOGICO NO BIODINAMICO NO NATURALE NO LOGO

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NO LOGHI
Enoize si batte ormai da anni contro tutte quelle certificazioni e disciplinari che, di fatto, non tutelano nè la terra su cui viene creato il prodotto finale, nè tantomeno i lavoratori del settore: parlare di prodotti genuini prescindendo da questi due elementi ha per noi poco senso. Sappiamo di andare controcorrente, in un momento storico in cui i vini cosiddetti “naturali” hanno guadagnato una buona fetta di mercato, ma durante i nostri corsi non diamo risalto alle parole “biologico”, “biodinamico”e “naturale”, né tantomeno amiamo parlare, se non in termini critici, di doc, docg, igp, dop.



LE NUOVE MODE DIALETTICHE: I LIEVITI INDIGENI
Nel mondo del vino naturale, dopo la questione solfiti, è arrivato un nuovo grande must: i lieviti indigeni. I puristi vino-naturalisti, e i terroiristi in genere, li preferiscono all’odiato “lievito selezionato”, offerto dalle industrie enologiche in pratiche buste da chilo.

Per chi non lo sapesse, il lievito indigeno è rappresentato da delle strane bestioline capaci, tra le altre cose, di trasformare gli zuccheri in alcol e, di conseguenza, il mosto in vino. Purtroppo la noiosa discussione tra più o meno esperti del settore su lieviti indigeni/selvaggi/ selezionati, si trasforma sempre in discussioni tra opposte fazioni dove l'opinione di uno tende a voler predominare sull'opinione di un altro, impedendo un vero dibattito sul tema. In realtà, la scelta tra fermentazione spontanea, cioè senza aggiunta di lieviti arrivati “da fuori”, e utilizzo di fermenti selezionati, non rappresenta un’alternativa secca, ma due punti lungo i quali esistono numerose “sfumature di grigio”.

Parlando di fermentazioni, a noi piace suddividerle affettuosamente nei seguenti tipi:
Fermentazione “a culo”: si butta l’uva in una vasca, non si aggiungono lieviti e nemmeno solfiti, tanto meno altri prodotti enologici, non si controlla la temperatura. Si possono produrre vini memorabili, più spesso imbevibili. La causa sono le deviazioni microbiologiche, cioè l’azione di microrganismi diversi dai lieviti vinari “buoni”, prevalentemente batteri. Per altri alimenti si usa il termine “andare a male”, ma in enologia pare brutto.

Fermentazione dei Dotti:
si parte dal “pied de cuvè” , cioè una piccola massa in fermentazione non aggiunta di lieviti (e aggiunta, o meno, di solfiti), nella quale sia possibile fare alcune verifiche prima dell’inoculo, necessarie soprattutto in assenza di solfiti. Da qui poi si controlla che la fermentazione sia regolare, la produzione o meno di composti indesiderati, si assaggia sempre, fino a spingersi talora all’analisi microbiologica delle specie e dei ceppi che stanno operando, con metodi più o meno avanzati, dal microscopio all’analisi del DNA. Chi è proprio figo prepara più piedi per scegliere il migliore. Questa tecnica, che richiede un altissimo livello di igiene e solide conoscenze tecniche, consente in genere di condurre una fermentazione senza solfiti (eventualmente aggiunti in seguito) minimizzando il rischio di deviazioni.

Fermentazione alla vecchia: viene tuttora impiegata in alcune cantine che producono vini a basso prezzo, in cui non si fa nessun inoculo, o si inoculano solo i primi fermentatori, e ci si assicura contro le deviazioni microbiologiche con l’apporto di ingenti iniezioni di anidride solforosa alla quale i lieviti vinari del genere Saccharomyces sono piuttosto resistenti, al contrario dei batteri e di altri lieviti.

Fermentazione VIP:
si inoculano lieviti selezionati indigeni, che vengono isolati durante la fermentazione spontanea, testati per verificarne i caratteri enologici, e successivamente riprodotti il tutto in laboratorio. Il metodo sposa l’idea del lievito indigeno, minimizzando però i rischi delle fermentazioni spontanee.

Fermentazione dell’enologo:
si inoculano lieviti selezionati, a volte creando un mix tra specie diverse. Si ottiene così una maggiore complessità dei vini che si bevono, probabilmente dovuta alla maggiore biodiversità.

MA DOVE SI TROVANO I LIEVITI?
I produttori e le produttrici di vino ci raccontano la vendemmia, descrivendo la raccolta manuale delle uve e la scelta dei grappoli sani per avere qualità e pulizia, in cantina prima e nel vino poi. Da questo dovremmo dedurre che per avere fermentazioni spontanee con i lieviti indigeni è necessario avere uve molto sane. In realtà, però, la presenza dei lieviti del genere Saccharomyces è molto ridotta sulle uve sane, mentre è molto maggiore su uve ferite o rosicate dalle vespe, insetti che hanno un ruolo importante nella dispersione dei lieviti nell’ambiente. Nel caso della fermentazione spontanea, dunque, a lavorare sono i lieviti che popolano la cantina, poiché i lieviti vinari non sono in grado di colonizzare, e quindi di fermentare gli zuccheri, in un frutto integro. I lieviti vinari hanno bisogno di luoghi favorevoli alla loro coltura e l’uomo, fin dalla notte dei tempi, ha giocato un ruolo chiave nella loro riproduzione e selezione, ad esempio con la preparazione degli alimenti fermentati: vino, birra, pane etc. Anche l’interscambio continuo tra la cantina e l’ambiente esterno (il vigneto) mediato per lo più da insetti, e le mutazioni spontanee, hanno certamente determinato una differenziazione dei lieviti nelle zone viticole del mondo ed anche da cantina a cantina.

GLI AROMI DEL VINO
Ma si possono effettivamente distinguere i vini ottenuti da fermentazioni spontanee con lieviti selvaggi o indigeni da quelli ottenuti attraverso i lieviti selezionati?
Se nei vini invecchiati è quasi impossibile, nei vini giovani gli aromi intensi di agrumi e frutti tropicali possono far pensare ai lieviti selezionati, seppur non ne avremo mai la certezza, perchè la presenza di determinati aromi dipende strettamente dall'interazione tra il lievito e il mosto. Per esempio l’acetato di isoamile, familiarmente chiamato bananone dagli enologi, prodotto in abbondanza da certi lieviti, si trova frequentemente nello Chardonnay ma molto meno in altri vini.
“Un lievito produce aromi fermentativi e libera, attraverso enzimi specifici e in parte diversi da ceppo a ceppo, precursori aromatici che sono legati a una molecola di zucchero, un po’ come se tagliassero il filo a un palloncino legato a un sasso facendolo volare.”
Poichè il lievito non può tirar fuori da un mosto quello che non c’è, è facile intuire che i lieviti non sono degli “aromatizzatori”. Inoltre, una componente olfattiva che deriva da un certo vitigno, o da un certo “terroir”, potrebbe restare del tutto silente con una fermentazione spontanea, perché i lieviti indigeni non hanno l’enzima che la evidenzierebbe.

Allora qual'è il vino più rappresentativo di un terroir?
La risposta, in realtà, è abbastanza complessa, come complessa è la Natura, che ci ricorda che l’obiettivo biologico della pianta della vite non è fare del buon vino, ma sopravvivere; che l’obiettivo del lievito è riprodursi, non fare il vino che piace a noi con i sentori che vogliamo noi. Pensare che un vino sia tout court migliore perché fatto con un qualunque lievito “del luogo” è un pensiero certamente legittimo, ma molto “antropocentrico”, quasi che la natura fosse al servizio dell’uomo. Per fortuna non lo é.
Per tutti questi motivi non ci piacciono i loghi, i dettami, le leggi che ci dicono cosa sia più o meno buono. A questi standard preferiamo la conoscenza diretta, che permette di sviluppare un rapporto di fiducia tra chi consuma e chi produce, rompendo di fatto tutti quei rapporti creati su un modello economico capitalista. Per concludere, i lieviti selezionati, indigeni o meno, semplificano la vita a chi fa il vino, mentre i lieviti selvaggi la complicano. Alzando il livello della sfida consentono però, talvolta, di ottenere vini migliori, più complessi e più originali. Per vincere questa sfida il coraggio serve, ma non basta. Serve conoscere e imparare dai propri errori, rimanere umili e...una dose di culo non fa mai male!

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    Author

    Dario Biagetti
    studioso della storia del  vino, hackenologo per passione

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    September 2020
    May 2020
    April 2019

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